Se chiedete in giro, qualcuno ricorda i “Tre giorni del Condor”, film di successo con Robert Redford, che rivelò alcuni tragici comportamenti della Cia. Chissà quanti rammentano però “I quattro giorni che cambiarono il tennis”, gli indimenticabili giorni, dal 25 al 28 agosto 1967, cinquant’anni fa, che diedero vita al tennis che vedete oggi. Con otto super singolaristi e quattro coppie di doppi che diedero spettacolo all’All England Lawn Tennis and Croquet Club nel “Wimbledon Pro”. Perché il torneo sportivo più famoso, anche se fuori data per il le sue gare ufficiali, proprio non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di dare i natali anche al professionismo della racchetta, anticipando gli eventi in quell’epoca di grandi rinnovamenti ed ospitando quindi nel Tempio del dilettantismo tennistico i migliori professionisti che ne erano esclusi per una stolida, irreale, barriera. Mettendo finalmente in vetrina quelli che erano davvero i migliori rappresentanti della “noble art”.
In palio, in quei giorni, con la finale di lunedì, con tutti i match che si disputarono sul Centre Court, dove, a luglio, John Newcombe aveva vinto i Championships, c’erano in palio 45mila dollari, che oggi sembrano ridicoli, ma all’epoca stabilirono il record. C’era la diretta alla Bbc che fu anche sponsor, per pubblicizzare la neonata tv a colori, anche se comunque il pubblico presente fu di 30mila persone. E, ovviamente, vinse Rod Laver, il “Rocket”, il più forte di tutti, che aveva chiuso il Grande Slam nel 1962 prima di passare professionista e avrebbe concesso il bis nel 1968, quando, di l a poco, il tennis fosse diventato Open, cioè aperto a tutti. Il doppio se lo aggiudicarono Pancho Gonzales ed Andres Gimeno. Anche se il vero trionfatore fu Jack Kramer, l’ex numero 1 del tennis, promotore del tennis pro negli anni 50 e 60, e poi del Grand Prix e anche dell’Atp che, a Wimbledon 1966, da telecronista Bbc, aveva lanciato in diretta la proposta del “Wimbledon pro”, che riportasse nel Tempio i professionisti esclusi.
Kramer, che fiutava il vento, convinse Wimbledon della bontà dell’idea. Dopo anni di trattative dietro le quinte e di sonore sconfitte, come quella dell’estate del 1960 quando l’assemblea della Federazione mondiale (Itf) si era riunita a Parigi per votare il tennis open, ma la mozione, che necessitava di almeno 139 dei 209 aventi al voto, non passò per una manciata di preferenze: appena 5. Perché in realtà, quello dell’agosto 1967, fu un torneo fintamente dimostrativo, con un tabellone da favola, con Andres Gimeno, Rod Laver, Fred Stolle, Butch Buchholz, Dennis Ralston, Pancho Gonzales, Ken Rosewall e Lew Hoad, cioè i professionisti più forti che, poiché ricevevano ufficialmente premi in denaro, erano esclusi dal circuito fintamente dilettantistico e quindi dai tornei dello Slam. Il “Wimbledon pro” riapriva gli occhi a tutti e fu, di fatto, la ratifica ufficiosa della decisione ufficiale del dicembre 1967, quando l’annuale meeting della British Lawn Tennis Association (LTA) votò in modo schiacciante l’ammissione di giocatori di tutte le categorie ai Wimbledon Championships 1968 e agli altri tornei in Gran Bretagna. Così, con una mossa politica tipicamente british, pur lasciando le altre federazioni tennistiche nazionali libere di scegliere le proprie regole, prendeva tutti in contropiede aprendo la nuova era.
E comunque, chi giudicò d’acchito quel torneo come un torneo veterani dovette subito ricredersi. Anche i più anziani del lotto, anche quelli con qualche chilo e qualche capello bianco in più, come lo statunitense Gonzales ormai 39enne (che mai ha alzato il trofeo di Wimbledon) e il 32enne australiano Hoad (campione 1956 e 1957, prima di passare professionista), diedero spettacolo. Hoad pagò quel duello nella semifinale contro Rosewall. Cioé il finalista di Wimbledon 1954 e 1956 (e poi del 1970 e del 1974), che non avrebbe mai aggiunto proprio il solo Wimbledon alla collezione di Slam. Neppure in quel torneo della pace a Church Road che perse nel derby dei fuoriclasse australiani contro Laver per 6-2 6-2 12-10. In quella partita, molto più eccitante della finale del torneo ufficiale di luglio, quando Newcombe aveva distrutto Bungert per 6-3 6-1 6-1, ci furono 12mila entusiasti spettatori. “Dopo essere cresciuti usando la margarina, è stato bello ritrovare il gusto del burro”, chiosò il Guardian di Londra. Varando di fatto il tennis Open.
Vincenzo Martucci