Non poteva che cominciare tutto dalla lega composta dal maggior numero di afroamericani degli Stati Uniti, la NBA. I Milwaukee Bucks, peraltro in corsa per il titolo, si sono rifiutati di scendere in campo contro gli Orlando magic, come protesta per le violenze della polizia contro i neri, che dopo la brutale uccisione di George Floyd pochi mesi fa, non danno il minimo segnale di fermarsi, anzi. I sette colpi di pistola alle spalle a Jacob Blake da parte della polizia del Wisconsin – che ne hanno causato la paralisi – è solo l’ultimo tremendo episodio. Anzi il penultimo, perché dopo è arrivata la notizia della morte di due manifestanti a Kenosha, per mano pare di un ragazzino di 17 anni. Per questo lo sport USA ieri si è fermato come mai era successo, con sospensioni partite dal basket, passando per baseball, calcio e tennis.
Sulla Gazzetta dello Sport, Walter Veltroni scrive, come attacco per spiegare le ragioni della protesta, che “un afroamericano oggi è tornato a sentire che i suoi diritti, primo tra tutti quello alla sicurezza personale, sono messi in discussione“. Emanuela Audisio su Repubblica ha sottolineato la forza trainante dello sport: “Doveva essere una bolla, lontana da tutto e da tutti. […]Invece la bolla è scoppiata, si è fatta contaminare dalla voglia di giustizia, è diventata il laboratorio dei diritti civili, della protesta sociale, non solo delle T-shirt di moda con la scritta Black Lives Matter“.
Il rifiuto di Milwuakee di giocare contro Orlando è stato subito seguito dalle altre squadre e, soprattutto, sostenuto dalla NBA, che si è dichiarata orgogliosa dei suoi giocatori. A ruota, la WNBA (l’Nba femminile) e la Major League di baseball, del tutto nuova a manifestazioni simili, anche qui con la squadra di Milwaukee (i Brewers) ad avviare lo “sciopero”. Anche l’MLS di calcio ha visto il rinvio di 5 partite su 6. Nel tennis, la semifinalista di Cincinnati (torneo che quest’anno si gioca nella bolla di Flushing Meadows a New York), Naomi Osaka, nippo-americana e di colore, si è rifiutata di incrociare la racchetta contro la belga Elise Mertens, che rifiutando a sua volta la vittoria per walk-over ha dato l’assist alla WTA per appoggiare ufficialmente la protesta, subito spalleggiata dal tennis maschile dell’ATP. Anche nel football si registra la sospensione degli allenamenti dei New York Jets.
Una giornata storica e senza eguali nello sport americano. Lo sarà anche per la storia per la storia sociale e razziale del Paese? No, purtroppo, perché non basta uno stop di un giorno o due per costringere le istituzioni a cambiare le cose e le persone non coinvolte a riflettere. Qui non parliamo di discriminazioni verso i neri in cui c’è scappato un morto, ma di violenze continue con morti e feriti, tutti afroamericani. Per essere efficace, l’NBA avrebbe dovuto accettare la richiesta di LeBron James, dei suoi Lakers e dell’altra squadra di Los Angeles, i Clippers, gli unici due team a chiedere la sospensione definitiva del campionato proprio al suo culmine, nel bel mezzo dei play-off. In una situazione eccezionale si risponde con misure eccezionali, a costo di andare incontro a perdite economiche molto ingenti. Cosa hanno scelto invece le squadre e i dirigenti NBA? Di riprendere a giocare per sfruttare il megafono offerto dallo spettacolo in campo per proseguire la protesta. Un errore madornale, perché il tempo dedicato alle conferenze stampa e alle interviste ai giocatori, con le partite appena disputate non potrà mai essere integralmente speso per leggere comunicati e dire che contributo la lega basket vuole portare per favorire l’integrazione sociale e fermare le violenze. Se si gioca, arriveranno inevitabilmente le domande ‘sportive’ a togliere spazio ai contenuti della protesta. Un campionato NBA che invece finisce anzitempo, senza vincitori, darebbe un segnale che verrà ricordato e riscoperto dalle future generazioni, che guardando i vari vincitori dell’anello Nba avrebbero notato uno spazio bianco nella stagione 2019-20, chiedendosi perché e documentandosi. Nel breve termine, invece, gli interessi in gioco, di natura anche sociale ed elettorale, potrebbero davvero costringere l’amministrazione Trump a dare segnali di discontinuità con la politica di sola repressione delle proteste violente.
Nel tennis, allo stesso modo, Naomi Osaka – che già merita un plauso per il segnale forte che ha dato – per dare vera efficacia alla sua protesta dovrebbe avere il coraggio e la generosità di rinunciare a giocare una semifinale ben più importante, quella che eventualmente raggiungerebbe ai prossimi US Open. Certo, non si può non tener conto nel che tennis l’impegno di questo genere è tutto sulle spalle del singolo giocatore o giocatrice, mentre in uno sport di squadra è condiviso con gli altri. La campionessa di New York 2018 e dell’Australian Open 2019 per prima nel tennis ha avuto il merito di sollevare la protesta sottolineando che “non basta non essere razzisti, bisogna essere antirazzisti”. Il significato di quelle parole rimanda all’importanza di non limitarsi alle belle frasi e ai bei gesti. In questo senso, Charles Leclerc che non si inginocchia come tutti gli altri sulla pista di partenza del gran premio trasmette lo stesso giusto messaggio. Tornando ad Osaka, se avesse scelto di non scendere in campo oggi avrebbe dato più forza alla sua nobile battaglia, mentre chiederle di rinunciare a giocarsi fino in fondo la possibilità di vincere uno slam è forse una richiesta eccessiva. Anche se continuiamo a porci una domanda: Arthur Ashe, in una condizione analoga, sarebbe sceso in campo nella finale di Wimbledon contro Jimmy Connors?
*foto ripresa da adnkronos.com