Il rugby è lo sport di contatto per eccellenza. Perché si litiga, arrivando a feroci muso contro muso, è chiaro: la differenza tra un placcaggio regolare e uno falloso non è sempre evidente. Nell’impostare un placcaggio, il giocatore deve evitare di usare la spalla oppure di placcare al collo, per evidenti ragioni di sicurezza. In questi frangenti, però, un braccio che avvolge la spalla del portatore di palla in movimento può, scorrendo sul corpo di questi, finire in un attimo sul collo. Così come il placcaggio di spalla è evidente da fermo (ad esempio in uscita da un raggruppamento) ma non lo è certo quando l’avversario col pallone e il placcatore sono lanciati in velocità. In queste e in molte altre situazioni, l’arbitro interviene prontamente e sanziona il giocatore falloso. Nella testa dei giocatori però, non sempre l’autorità del giudice di gara è sufficiente a frenare l’agonismo e la voglia di prevalere. In campo vanno 30 giganti (con i meno ingombranti, come i mediani di mischia e apertura, per nulla intimoriti nel discutere con quegli armadi grandi e grossi dei piloni), inferociti come tori e motivati come… rugbisti! Non a caso, Oscar Wilde definì il rugby “un ottimo espediente per tenere 30 energumeni lontani dal centro città”…
Anche a livello professionistico un giocatore, pur abituato a un autocontrollo impeccabile, nel subire o anche solo nel vedere un fallo scorretto verso un compagno di squadra, può andare sopra le righe mettendo le mani addosso al colpevole. A quel punto i compagni del colpevole e quelli della vittima, specie dopo un’ora di scatti, corse, botte date e prese, possono facilmente unirsi alla festa… In questi casi, quasi sempre l’arbitro riesce a rimettere le cose a posto con un paio di cartelli gialli (che comportano un’espulsione temporanea di dieci minuti) o anche rossi (espulsione definitiva) e un richiamo ai due capitani, riprendendo così la leal contesa. La partita volge dunque al termine senza ulteriori risse o discussioni, anche se a un occhio digiuno di rugby s’immaginerebbe un inevitabile regolamento di conti negli spogliatoi.
Ecco, negli spogliatoi non succede niente, se non stringersi la mano. Per dare l’idea dello spirito del rugby rubiamo quanto Marco Pastonesi ha scritto sul compianto Marco Bollesan, grande ex giocatore azzurro e anche coach della Nazionale. Bollesan amava raccontare il suo esordio con l’Italia, nel lontano ’63 contro la Francia. In occasione di una touche (la rimessa laterale), ricevette una potente “carezza” da parte di un avversario, Michel Crauste detto “Attila”, che gli procurò un taglio nell’arcata sopraccigliare e nove punti di sutura. Alla prima occasione utile, la touche seguente, l’esordiente Bollesan restituì il favore al navigato avversario. Alla fine del match negli spogliatoi i due, anziché scannarsi, si scambiarono la maglia. Tra i codici non scritti del rugby, è fondamentale la riappacificazione fra avversari, che dal fischio finale cessano di essere tali. È il significato del terzo tempo, uno spazio conviviale dedicato alla fraternizzazione tra (ex) avversari, annaffiato da fiumi di birra e cibo offerti dalla squadra di casa.
Ancora una volta, grande rispetto e ammirazione, lo spirito di Ovalia è ancora il più nobile. Anche se… vista da fuori, questa mutazione istantanea da avversari ad amiconi – non ce ne vogliano santi e angeli, visto che secondo alcuni, “il rugby è lo sport che si gioca in Paradiso”… – ricorda un… cartone animato! “Ralph il lupo e Sam cane pastore”, due animali che vivono insieme, a colazione si scambiano incoraggiamenti per la giornata lavorativa che hanno davanti, timbrano addirittura il cartellino e poi ognuno fa il suo mestiere. Peccato che sia opposto a quello altrui. Ralph fa il lupo (una sorta di Will Coyote rivisitato) e caccia le pecore, Sam fa il cane pastore e quando prende Ralph gli fa vedere i sorci verdi. Alla fine della giornata di lavoro, i due timbrano il cartellino (metafora del fischio finale del match di rugby) e se ne tornano a casa insieme, come veri amici.
Una mutazione, insomma, troppo repentina e grottesca per non chiedersi perché si faccia pace subito, dopo essersele date di santa ragione. La tradizione del terzo tempo, perché sia spontanea e credibile, la si apprende da giocatori o da tifosi navigati, che in quella sede si ritrovano tutti insieme. Anche oggi nel pieno professionismo, capita di seguire a Parma un match di Celtic League (rinominato United Rugby Championship) e trovarsi davanti a una pinta spalla a spalla con uno come Jonathan Sexton, mediano d’apertura del Leinster e dell’Irlanda unita, o come una decina di anni fa a Viadana scattare un selfie con Stephen Jones, 104 presenze con la nazionale gallese. Un po’ come farsi un brindisi al bar vicino allo stadio Maradona di Napoli con Osimehn o a San Siro con Leao o Lautaro…
Solo negli ultimi anni, il professionismo e la legge del capitale hanno ristretto sempre di più il terzo tempo, relegato a poco più di una stretta di mano fra i giocatori. Una lesa maestà che non toglierà nulla al mito di un evento eterno (c’è sempre stato e la sua origine si perde nella notte dei tempi) e distintivo del rugby, “una battaglia durissima seguita dalla pace più bella del mondo”, come ebbe a definirlo Marco Bollesan.
Foto ripresa da https://www.lacittadisalerno.it