Bravo, Marin Cilic. Bravo al soldatino silenzioso e concreto, che porta i due punti decisivi alla sua Croazia per il secondo trionfo in coppa Davis. Bravo perché non fa mai chiasso, non protesta, non si lamenta, non è colorito, non è mai sgarbato. Bravo perché s’è fatto pezzo dietro pezzo, partendo da un buon servizio e da un ottimo rovescio, costruendosi col duro allenamento un discreto dritto e, soprattutto, un fisico sorprendente per un quasi due metri. Bravo perché ha reagito, da figlio della Bosnia Herzegoniva (nazione poi disgregata per la quale ha giocato prima di rappresentare la Croazia, la patria dei genitori), si è trasferito, bambino, a Zagabria, e, 15enne, a San Remo alla Accademia di Bob Brett, quindi a Spalato da Goran Ivanisevic, transitando per il servizio-volée di coach di Jonas Bjorkman, per poi tornare a casa, da Ivan Cinkus.
Bravo, perché si è tolto di dosso l’etichetta di “troppo buono”, insieme ai sorrisetti beffardi che accompagnano chi viene da Medjugorje, è molto cattolico, è gentile, è rispettoso. Bravo, perché nel 2013 è rimasto coinvolto in una vicenda-doping, ma – sempre tenendo la testa alta – ha dimostrato che era stata solo una disattenzione della mamma, e la sospensione di nove mesi gli è stata poi ridotta a quattro. Bravo, Cilic. Perché, zitto zitto, è stato uno dei pochissimi a infilarsi nell’egemonia Slam dei Fab Four (Federer, Nadal, Djokovic, Murray), conquistando gli Us Open 2014. Bravo, perché sempre senza piangersi addosso, ha perso due finali Majors, a Wimbledon 2017 e agli Australian Open 2018, sempre contro il secondo, miracoloso, Federer, e sempre con recriminazioni (le vesciche di Londra e il crollo nel quinto set di Melbourne).
Bravo, perché si è risollevato dalle batoste con i due coach storici: Brett, che non gli garantiva più progressi ma era come un padre, e Ivanisevic, che s’è indirizzato verso Tomas Berdych, tradendolo, dopo averlo portato nell’élite mondiale. Bravo, Cilic. Perché era uscito col morale a pezzi dalla finale di Davis di Zagabria di due anni fa, quando aveva domato al quinto set Delbonis ed aveva anche vinto il doppio insieme all’amico e concittadino Dodig ma, da due set a zero, s’era sciolto contro Del Potro, riacquisendo la nomea di ”gran perdidor” che s’era tolto di dosso con enorme struggimento mentale. Bravo, perché, sempre senza far rumore, ha vinto 18 titoli Atp e, a gennaio, è arrivato al numero 3 del mondo (oggi è 7), confermandosi fra i più continui fra i “top 10”, dov’è arrivato nel 2010.
Bravo, Cilic. Perché nella bolgia di Lille, con il pubblico francese super-motivato da capitan Noah e dall’evidente inferiorità dei singolaristi di casa, aveva tutto da perdere, da favorito, da giocatore con la classifica più alta in campo, da pilastro della squadra, da veterano. Ma ha vinto tre set a zero i suoi due singolari, superando con freddezza i momenti delicati del secondo set sia contro Tsonga che contro Pouille, dando una prova di forza e di sicurezza al gruppo e all’appassionato pubblico bianco-rosso. Bravo, Cilic, esempio di comportamento dentro e fuori del campo. Il suo gioco non è e non sarà mai esaltante, è l’emblema del tennis moderno, essenziale, violento. Ma redditizio.
*articolo ripreso da federtennis.it