La Nba ha chiuso ufficialmente la stagione incoronando mvp Russell Westbrook e premiando Mike D’Antoni come allenatore dell’anno. E’ la prima volta che viene organizzata una serata su Espn per celebrare il meglio del campionato appena concluso, solitamente i premi annuali erano comunicati durante i playoff. Bella iniziativa, come sempre sanno fare gli americani, anche se incoronare Westbrook oggi, dopo tutto quello che è successo dal 15 aprile alla conquista del titolo da parte dei Warriors, ha un sapore fuori stagione: avreste voglia di mangiarvi una fonduta fumante in spiaggia sotto il sole di questi giorni? Come già nelle discussioni fatte due mesi fa, io avrei votato James Harden ma, evidentemente, eleggere miglior giocatore Westbrook, il primo a chiudere la stagione con una tripla doppia di media dai tempi della leggenda Oscar Robertson, non fa una grinza. Così come aver premiato Mike D’Antoni
coach of the year, come già è accaduto nel 2005 a Phoenix, sperando che stavolta la cavalcata di Houston finisca con la conquista del titolo. Che a Mike manca, anche se è universalmente riconosciuto come il tecnico che ha rivoluzionato il basket di oggi, consacrato dal doppio anello dei Warriors allenati da Steve Kerr, che a D’Antoni si è ispirato. Mike è stato molto carino, come sempre, ricordando che senza l’esperienza italiana sarebbe stato un uomo, oltre che un allenatore, meno maturo e vincente (ha dato credito, citandolo, anche a Dan Peterson). Dati a Draymond Green dei Warriors il titolo di difensore dell’anno e al greco Giannis Antetokounmpo di Milwaukee il premio al giocatore migliorato di più, la cosa più stimolante è stato l’aver scelto come matricola dell’anno il play dei Bucks Malcon Brogdon. Che è una storia completamente in contro tendenza rispetto ai canoni di questi anni non solo perché è stato l’unica seconda scelta (cioè chiamato dal n.31 in giù, fuori dai 30 del primo giro) a conquistare il premio nella storia della Nba. Ma, soprattutto, perché è “vecchio” (compirà 25 anni a novembre) ed è uscito dall’università come senior, cioè giocatore che ha terminato i 4 anni accademici e sportivi. Cioè è arrivato nella Nba già da persona matura, cosa che non accade quasi più. Vero che se Joel Embid, di Philadelphia, giocatore fantastico, non si fosse infortunato più volte, avrebbe vinto a mani basse. Ma il premio a Brogdon getta una luce diversa anche sull’ultimo Nba draft della scorsa settimana.
Delle prime 11 chiamate, 10 hanno riguardato “freshman”, cioè giocatori usciti dall’università al termine della prima stagione (perché da qualche anno non è possibile passare professionisti direttamente dal liceo come fecero Kobe e LeBron), cioè giovanissimi. Il n.1 assoluto Markelle Fultz ha compiuto 19 anni a maggio, senza esperienza ma con potenzialità altissime. Per trovare un “secondo anno” (sophomore) bisogna arrivare alla scelta n.12, un “terzo anno” (junior) si va alla 15 e l’unico chiamato da senior, com’era Brogdon, è al 29, Derrick White. Oggi si dà per scontato che se uno sta troppo al college è perché non è abbastanza forte per attirare le squadre Nba. La storia di questa stagione avrebbe invece dovuto far riflettere che spesso la maturità può contare di più del puro talento per avere successo subito tra i pro. Nel primo quintetto dei rookie, troviamo due senior (l’altro è Buddy Hield) e due
europei, Saric che ne ha già vissute di tutti i colori anche in Eurolega e in Nazionale, e Willy Hernangomez, che ha già un paio di medaglie preziose con la Spagna. Invece nel draft 2017 si è puntato tutto sul talento.
Markelle Fultz è considerato il giocatore in assoluto più completo, grande atleta alto 1.96, può fare assolutamente tutto con la palla in attacco. Ammetto di averlo visto poco e di avere qualche dubbio: ha giocato un solo anno in un college di seconda fascia, Washington, non s’è qualificato al torneo Ncaa, ha dominato partite di relativo valore tecnico. Temo l’impatto con la Nba. Ma tutti stravedono per lui e avranno ragione. Giocherà a Philadelphia che ha raggruppato il maggior numero di giovani talenti della storia. Il n.2 è Lonzo Ball, altro grande atleta, passatore eccezionale che ha due pesi da sopportare in ottica Nba: il tiro, sicuramente efficace, ma che parte basso, dallo sterno, e quindi poco affidabile contro le difese dei pro, e il padre, uno spaccaballe di dimensioni colossali (di questo parliamo dopo). Giocherà ai Los Angeles Lakers. Al n.3 hanno chiamato i Boston Celtics, unica squadra di vertice con posizione alta nel tabellone. Hanno puntato su Jayson Tatum, probabilmente l’attaccante migliore del gruppo. Ma lasciando passare Josh Jackson, finito ai Suns, un animale da parquet, con tanti punti interrogativi sul suo tiro ma molte qualità che potrebbero farne il rookie of
the year della prossima stagione. I cui riflettori resteranno sempre accesi su Lonzo Ball, sia perché ha il compito designato di rianimare i Lakers, sia perché il padre LaVar non farà nulla per spegnerli, anzi. LaVar, ex mediocre giocatore di football e di basket, ha dedicato la vita ai suoi tre figli, Lonzo, LiAngelo e LaMelo. Che allena assieme da quando il più piccolino ha 4 anni. E’ assurto agli onori della cronaca la scorsa primavera, quando ha sostenuto che suo figlio LaVar, impegnato nella March Madness con l’università di Ucla, fosse già più forte di Steph Curry (poi anche di LeBron James e Russell Westbrook).
Dall’alto della sua carriera universitaria da 2 punti di media a partita, ha dichiarato che, da giovane, avrebbe ammazzato Michael Jordan in uno contro uno. Finché uno le spara così, fa anche ridere. Ma peggio è stato quando ha detto che Ucla fosse stata eliminata dal torneo Ncaa perché: “non si può vincere con tre bianchi in quintetto, hanno piedi troppo lenti. Ho detto a Lonzo che avrebbe dovuto segnare 40 punti per
farcela”. Pensate se un bianco avesse sostenuto lo stesso, al contrario… Via via, una volta sparando che i tre figli valgano un contratto da …un miliardo per la loro linea di scarpe (LiAngelo e LaMelo giocano ancora al liceo), un’altra litigando con una giornalista in tv, siamo finalmente arrivati al draft. L’unica cosa che papà LaVal desiderava è che Lonzo giocasse nei Lakers. Così sarà. Ed è partito il tweet: Los Angeles subito ai playoff grazie a suo figlio. Che, oltre a essere un buon giocatore, è un ragazzo piuttosto chiuso e pacato. Schiacciato dalle esagerazioni e le aspettative del padre, ma apparentemente più maturo. L’altro giorno gli ha scritto una tenera lettera aperta, “all’uomo più rumoroso che c’è in palestra” ricordando quanto gli è stato sempre vicino, ogni mattina dalla colazione, agli allenamenti, alle gite coi fratelli nei tornei giovanili in cui giocavano nella stessa squadretta, la Big Ballers, alla scuola. E, allora, visto in questa dimensione, considerando quello che succede nel mondo, LaVar diventa un po’ più simpatico. Sono in molti a pensare che se Lonzo non avrà successo nella Nba, sarà per colpa del padre. E tutti si aspettano già polemiche e mal di testa che farà venire a allenatori, compagni, dirigenti, cioè a Magic Johnson, dei Lakers. Diciamo che Lonzo è già un bel po’ antipatico alla massa. Deve sperare che LiAngelo e LaMelo crescano in fretta, per non dover sostenere da solo questo carico. Liberato, potrebbe volare.
Luca Chiabotti