Sabato prossimo, nella tarda serata, non prendete appuntamenti: alle 23.45 italiane ci sarà l’ultimo sprint in una gara individuale di Usain Bolt. La finale dei 100 metri dei Mondiali di Londra, nove secondi e poco più che chiuderanno un’era. Quella del giamaicano è stata la più grande dittatura nel mondo della velocità, iniziata nel giugno del 2008 con il primato mondiale dei 100 metri al meeting di New York, confermata due mesi dopo con la completa esplosione all’Olimpiade di Pechino e proseguita sino ad oggi con incantevole monotonia attraverso altre due edizioni olimpiche e 4 campionati Mondiali. L’ultimo passo in pista dovrebbe poi essere fra due settimane, alla fine dei Mondiali (4-13 agosto) nell’ultima frazione della 4×100, una specie di passerella d’onore planetaria fra tanti rimpianti e qualche lacrima.
Un campione forse irripetibile. Bolt ha stravolto le tabelle dei primati (9”58 sui 100 metri e 19”19 sui 200 oltre a quelli della staffetta veloce), ma soprattutto è stato ed ha dato un’immagine all’atletica, immagine che ora l’atletica stessa dovrà cercare di conservare. Dieci anni fa c’era chi pensava che quel “Bolt” (fulmine) fosse un nome d’arte ed invece quelle 4 lettere perfette per un titolo di giornale erano il biglietto da visita di un predestinato che ha saputo allargare pure i confini della fantasia.
Il mondo ne ha sentito parlare per la prima volta nel 2002, quando, a soli 16 anni vinse il titolo mondiale juniores dei 200 metri in 20”58, impresa quasi impensabile in una fascia di età in cui di anno in anno la crescita fisica e prestativa è enorme, ma nessuno pensava che quel suo metro e 96 di altezza per 88 chili potesse emergere anche sui 100, che al massimo avrebbe potuto estendere il suo potere ai 400 metri. Leve troppo lunghe, si diceva, per riuscire a trovare la massima velocità in così poco spazio. Ma Usain è stato fortunato, ha trovato nel suo destino due uomini fondamentali. Prima l’ex campione olimpico Don Quarrie che lo ha protetto permettendogli una crescita graduale mentre faceva esperienza, quindi Glenn Mills, l’allenatore che lo ha plasmato rendendolo una macchina perfetta.
Bolt è l’esempio perfetto di cosa sia la corsa veloce, ogni sezione del suo corpo dal punto di vita biomeccanico lavora al meglio per portarlo alla massima velocità senza disperdere potenza. E la curva dei 200? Pure quella da manuale. Ma non sarà solo questo che Usain darà in testamento all’atletica.
Ci siamo mai chiesti come questo ragazzo è riuscito a raggiungere le attuali vette di popolarità? No, per questi livelli non bastano i numeri, bisogna piacere alla gente “a pelle”. Di norma il campione può essere amato e odiato, c’è chi ti idolatra e chi aspetta la tua sconfitta. Usain pare non aver destato neppure invidia, se non quella delle generazioni di avversari che ha costretto nell’ombra. Un modello inarrivabile? Chissà…
Il segreto? Forse sta in quel costante atteggiamento che ha tenuto sempre in mezzo alla gente. Con il sorriso sempre tracciato sul volto, quel continuo sdrammatizzare le situazioni, anche pochi secondi prima del via di una finale olimpica. Pure la sua mimica è diventata storia, milioni di ragazzi scagliano frecce immaginarie alle nuvole, altri si lisciano i capelli con gli occhi suadenti come fa lui prima di accoccolarsi sui blocchi di partenza. Il messaggio subliminale che lanciano i suoi gesti sono la bellezza dei vent’anni e il concetto che lo sport, pure nei momenti più drammatici, è e rimane sempre un gioco, ciò che la gente segue ed ama per dimenticare i quotidiani problemi della vita.
Facile, dirà qualcuno, per uno che vince sempre. Ma Bolt si è dimostrato grande anche quando a perso. Vi ricordate i Mondiali di Daegu 2011, quando, nella finale dei 100 metri, poi vinti dal connazionale Blake, venne squalificato per falsa partenza? Fu proprio Blake, alla sua sinistra, ad ingannarlo quando, nell’immobilità del “pronti” alzò una spalla che fece scattare Usain dai blocchi anzitempo. Nel “dramma” Bolt si è messo a ridere, ha coperto con le mani il volto come dire: “Che pollo…”. Ed il giorno dopo, mentre sui giornali imperversavano discussioni attorno ad una regola di partenza che pareva troppo draconiana, fu lo stesso Bolt a spegnere ogni polemica dicendo con semplicità: “Sono io che ho sbagliato, non la regola”. Giù il cappello.
Ora non ha davanti Mondiali facili. Si presenta a Londra con un primato stagionale di 9”95 sui 100, tempo azzannabile da una banda di ragazzotti. Usain non è più l’inavvicinabile “fulmine” dei Mondiali 2009 a Berlino dove fissò gli attuali primati del mondo. Ma non dimentichiamo il suo carisma. Nelle ultime due stagioni (Mondiali di Pechino e Giochi di Rio) questo carisma gli ha fatto conquistare ancora l’oro, perché, da Gatlin a De Grasse in giù, il rumore dei suoi passi ha sgonfiato loro i muscoli. Basterà anche questa volta a Londra? Comunque andrà, grazie Usain per quello che ci hai regalato.
Pierangelo Molinaro