Gli “incidenti” sul podio dei Mondiali di nuoto a Gwangju sono finiti, anche perché ha chiuso il suo programma di gare l’unico atleta che ne era al centro, il cinese Sun Yang. E già questo potrebbe provocare qualche riflessione sulla bontà di certe polemiche: nate a causa del doping o da un atteggiamento pregiudiziale di certe nazioni verso certe altre nazioni? Certo, è sorprendente vedere abbracciate sul podio e davanti ai fotografi la statunitense Lilly King, oro nei 100 rana, e la russa Juliya Efimova, argento, dopo che la King, in gare precedenti, non si era fatta scrupolo di esibire il dito medio verso la Efimova e lanciarsi in plateali “vaffa”. Tutto dimenticato? Se il giorno prima la King si scaglia contro Sun Yang, è quantomeno strano che il giorno dopo sia tutta abbracci e sorrisi con quella che lei stessa ha criticato aspramente per essere stata squalificata per doping. L’importante è prendersela con i cinesi? Sicuramente, chiunque sia colpevole deve essere punito, ma almeno nei resoconti giornalistici e nelle citazioni di fatti, episodi, gare e tempi cronometrici sospetti, si dovrebbe fare attenzione a scrivere la verità, non le personali interpretazioni basate su ricordi fumosi, se non addirittura falsi. E, soprattutto, bisognerebbe inquadrare la situazione in spazi più generali, non ristretti solo a certi atleti e nazioni, altrimenti si corre il rischio di fare il gioco di chi ha il predominio dell’informazione e la usa a vantaggio della propria parte, della propria nazione. Cerchiamo perciò di chiarire alcuni punti controversi, basandoci semplicemente sui fatti e sulle cifre vere. Le considerazioni verranno alla fine.
DONNA PIU’ VELOCE DELL’UOMO
Per mettere sotto accusa i cinesi, considerato che al centro delle polemiche c’è Sun Yang, si è fatto riferimento a un risultato dell’Olimpiade 2012 di Londra: la cinese Ye Shiwen, vincitrice dei 400 misti col record del mondo, negli ultimi 50 metri della finale, quelli a stile libero, andò più veloce dello statunitense Ryan Lochte, oro nei 400 misti maschili, nella stessa parte di gara, 28”93 Ye Shiwen, 29”10 Lochte. Da questo dato partì lo spunto per asserire con ancora più forza che Ye Shiwen si dopava. Col passare degli anni, i riferimenti si sono moltiplicati e se ne sono aggiunti altri, tanto che, negli ultimi articoli, si è arrivati a dire che Ye Shiwen non solo andò più veloce di Lochte negli ultimi 50 metri, ma anche negli ultimi 100, e sempre negli ultimi 100 anche più veloce di Michael Phelps, che in quella gara arrivò quarto. L’unico dato vero, basta andare a controllare negli archivi per accertarlo, è quello del raffronto con Lochte negli ultimi 50 metri. Tutti gli altri tempi citati sono falsi.
Ma non è questo il punto principale. Anzi, i punti principali sono due:
1) che valore ha quel raffronto con Lochte; 2) che raffronto c’era con gli altri 7 uomini finalisti dei 400 misti. Già, perché fare il confronto solo con Lochte? Perché ha vinto e quindi si presume che sia il riferimento più veloce? Per chi capisce minimamente di nuoto, è evidente che non può essere così, specialmente in una gara come i misti. Ma andiamo con ordine, con una premessa: molti dei dati e dei riferimenti che illustrerò sono contenuti nella relazione che la Fina fece a Londra 2012 dopo le polemiche sul tempo della Ye Shiwen e sulle accuse di doping che le furono rivolte, con la Fina che mise in evidenza come quel confronto avesse distorto la realtà perché basato su un solo dato numerico che non rappresentava la sostanza delle cose. Vediamo perché.
All’ultima virata della gara, ai 350 metri, Lochte è primo, ma non solo è in testa, sta letteralmente dominando la gara, vira in 3’36”08, con un vantaggio di 3”44 sul brasiliano Pereira (3’39”52), enorme, di 4”34 sul giapponese Hagino (3’40”42) e di 4”76 su Phelps (3’40”84). Sono distacchi abissali, raramente notati all’ultima virata di gare come questa. Quindi, Lochte, che tra l’altro è in ritardo di circa un secondo e mezzo sul record mondiale di Phelps e non ha alcuna possibilità di attaccarlo, può nuotare gli ultimi 50 metri “passeggiando”. Ye Shiwen, invece, all’ultima virata, ha un vantaggio di soli 96 centesimi sulla statunitense Elizabeth Beisel, quindi ha la necessità di spingere al massimo. La situazione, come si vede, è indicativa dell’impegno differente che Lochte e Ye Shiwen hanno dovuto mettere negli ultimi 50 metri, citare il dato specifico senza spiegare la circostanza dalla quale ha origine equivale a falsare la realtà.
E passiamo al secondo punto: gli altri finalisti maschili che tempi fanno? Anche loro sono più lenti di Ye Shiwen? Qui viene fuori ancor di più la “malignità” del dato specifico preso ignorando tutto il resto. Negli ultimi 50 metri, crolla Pereira, che mantiene a stento la seconda posizione, vanno male le Clos e Marin, che però arrivano già in calo agli ultimi 50, in particolare l’azzurro, e smettono di lottare, ma gli altri che hanno ancora un obbiettivo non rallentano. E allora, meglio del tempo di Ye Shiwen (28”93 negli ultimi 50 metri), fanno il giapponese Horihata (27”87), l’australiano Fraser-Holmes (28”35), Phelps (28”44) e Hagino (28”52). Perché mai prendere soltanto il tempo di un tranquillo e già vincente Lochte per paragonarlo a quello della cinese e non i tempi degli altri? Si prendono solo pezzi di realtà per dimostrare un teorema precostituito. Completiamo il mosaico della realtà autentica con i tempi degli ultimi 100 metri: meglio di Ye Shiwen (che li ha nuotati in 58”68) fanno Horiyata (57”58), Fraser-Holmes (58”13), Hagino (58”20), Phelps (58”32) e lo stesso Lochte, sia pure di poco (58”65). E questi tempi non si prendono in considerazione? Forse perché smentiscono l’assunto originario?
Ma lasciando da parte gli ultimi metri, è mai possibile dire che una donna è più veloce di un uomo in una gara in cui l’uomo, Lochte in questo caso, fa un tempo di 23 secondi e 25 centesimi inferiore a quello della donna, Ye Shiwen? E, per concludere, tornando al confronto donna-donna, il record di Ye Shiwen è stato poi battuto dall’ungherese Katinka Hosszu all’Olimpiade 2016 di Rio, da 4’28”43 a 4’26”36. Due secondi in meno di quello che, per come era stato interpretato a Londra, era un tempo “da doping”. Sì, sono passati 4 anni, ma la Hosszu è 6 anni più grande della cinese e un miglioramento di 2”07 non è usuale, tant’è che Ye Shiwen aveva battuto quello dell’australiana Stephanie Rice (4’29”45), stabilito anche quello 4 anni prima, all’Olimpiade 2008 di Pechino, “solo” di 1”02. Migliorare di un secondo è segno di doping, di 2 secondi no. Andando al confronto fra Ye Shiwen e Hosszu, si nota che negli ultimi 100 metri, a stile libero, la cinese col suo 58”68 fa meglio di 3”18 dell’ungherese, che li nuota in 1’01”86, ma fino ai 300 metri, con gli altri tre stili, la Hosszu è in vantaggio di 5”25 sul tempo di Ye Shiwen. Quindi, se la cinese solleva dubbi di doping per gli ultimi 100 e 50 metri a stile libero, l’ungherese non li solleva per il suo vantaggio di oltre 5 secondi nella precedente parte di gara? Cosa succede: Ye Shiwen è dopata negli ultimi 100 metri e non lo è nei precedenti 300? Altrimenti non prenderebbe 5”25 da una atleta che invece non solleva alcun dubbio di doping. Ecco a quale paradosso si arriva quando si prende della realtà solo quello che fa più comodo per dimostrare una tesi che va a vantaggio di alcuni, sempre gli stessi, e a danno di altri, sempre gli stessi. Poi, se un giorno Ye Shiwen sarà trovata positiva al doping è giusto che sia punita, ma non sulla base dei sospetti che sono stati creati con riferimenti non giusti.
SCANDALI ROMANI
Un altro episodio richiamato alla memoria in questi giorni riguarda le squalifiche per doping ai cinesi nel 1994, per positività al doping riscontrate nei controlli ai Giochi Asiatici di Hiroshima. Il riferimento, però, viene fatto di solito ai Mondiali di quello stesso anno a Roma, un mese prima dei Giochi Asiatici, sia perché sono una manifestazione più importante, sia perché in quella edizione la Cina dominò le gare femminili, con 12 ori, 6 argenti e un bronzo. Quando si ricorda quello scandalo, con susseguenti squalifiche, si dice che la squadra cinese trionfatrice a Roma fu poi riconosciuta dopata e che tutte quelle medaglie erano falsate. Anche in questo caso, la realtà è molto diversa e le ricostruzioni storiche sono sbagliate, quantomeno per cattivi ricordi o per mancata documentazione. Vediamo cosa è successo davvero.
L’equivoco, se così possiamo definirlo, nasce dal fatto che sui mezzi di informazione si riporta che a Hiroshima furono trovati positivi 7 nuotatori cinesi, senza ulteriori indicazioni. Quindi, il lettore automaticamente pensa che tutte le nuotatrici cinesi vincenti ai Mondiali furono trovate dopate. La realtà è diversa. A Hiroshima i positivi al doping furono 3 donne (Yang Aihua, Lu Bin e Zhou Guanbin), tutte medagliate ai Mondiali di Roma, e 4 uomini (Xiang Guoming, Hu Bin, Zhang Bin e Fu Yong), che a Roma non avevano vinto alcunché, ma avevano preso medaglie a Hiroshima. Ovviamente, resta la gravità generale di una nazione che ha 7 dopati tutti insieme, ma l’analisi della squadra trionfatrice a Roma non può essere quella di una intera squadra che ha vinto imbrogliando, perché delle 11 atlete a medaglia ai Mondiali 3 sono risultate dopate, ma 8 sono risultate pulite. Se poi si sostiene che se 3 erano dopate vuol dire che sicuramente anche le altre lo erano, allora i controlli antidoping non servono più, si condannano gli atleti a prescindere, purché appartengano a una determinata nazione. Se i concetti di indagine e di giustizia sportive hanno un senso, va rispettata la presunzione di innocenza, salvo il diritto di investigare sempre e comunque e mettere con le spalle al muro i colpevoli, come nel caso del ciclista statunitense Lance Armstrong, mai trovato positivo al doping, ma poi reo confesso di aver imbrogliato, dopo che la sua posizione era diventata insostenibile a causa di testimonianze precise e attendibili.
Perciò, un’analisi reale delle cinesi medagliate a Roma 1994 è necessaria. Le tre trovate positive al doping ottengono questi risultati: Lu Bin è oro nei 200 misti, argento nei 100 e 200 stile libero, oro nelle staffette 4×100 e 4×200 stile libero; Yang Aihua è oro nei 400 stile libero e nella 4×200 sl; Zhou Guanbin oro nella 4×200 sl. Quindi, sono sporchi 4 ori e 2 argenti della Cina in quei Mondiali. Ma sono puliti 8 ori, 4 argenti e un bronzo, ottenuti da Le Jingyi, He Cihong, Dai Guohong, Yuan Yuan, Liu Limin, Qu Yun, Shang Yin e Le Ying. Si può pensare quello che si vuole, si ha anche il diritto di credere che l’intera squadra cinese fosse dopata, ma non si può portare a esempio quella squadra come simbolo del doping, semplicemente perché non è vero, non è stato riscontrato e non è giusto per le nuotatrici che i controlli antidoping di Hiroshima li superarono senza problemi, a cominciare da Le Jingyi, che viene sistematicamente riportata come simbolo del doping di Hiroshima e quindi creduta dopata da chi non ricorda cosa è successo davvero. In effetti, ogni volta che si parla di quello scandalo, sui mezzi di informazione, sui siti internet, dovunque, viene pubblicata la foto di Le Jingyi, così che chiunque non abbia visto quei Mondiali crede che questa atleta fosse dopata e fosse stata riconosciuta colpevole. Il suo “aspetto mascolino”, come si scrisse sui mezzi di informazione, era di per sé una prova di colpevolezza secondo gli accusatori. “Mascolino” solo perché aveva spalle larghe e vita stretta, ma chi aveva la stessa larghezza di spalle e vita non altrettanto stretta, come molte nuotatrici statunitensi, non aveva “aspetto mascolino” e non era sospettata di doping. Sono questi i principi cui ispirarsi nella lotta al doping?
TUTTI BUONI GLI ALTRI
Proprio dai Mondiali 1994 di Roma si può prendere lo spunto per andare alla conclusione di questa analisi che è partita dalle polemiche di Gwangju. In quella edizione, a parte i 200 stile libero vinti dalla tedesca Franziska Van Almsick, c’è una sola specialità in cui le cinesi non riescono a vincere l’oro, la rana. Sui 100 e 200 il titolo va all’australiana Samantha Riley, che sui 100 stabilisce anche il record del mondo. Succede però, che prima dell’Olimpiade 1996 di Atlanta la Riley viene trovata positiva a un controllo antidoping. Squalificata? Macché. Il suo allenatore, Scott Volkers, si prende la colpa sostenendo che le ha dato una medicina contro il mal di testa che conteneva la sostanza incriminata. E la Riley riceve solamente un “forte richiamo”, così può continuare a gareggiare. Quindi, per un’atleta australiana basta che l’allenatore si prenda la colpa per avere la sicurezza di non subire squalifiche? E per quali nazioni vale questo principio e per quali no? Non è un caso isolato di trattamento, sia giuridico-sportivo, sia di impatto mediatico, differente rispetto ad altri atleti trovati positivi ai controlli antidoping. Magari, se l’australiano Mack Horton, osannato per non essere salito sul podio insieme a Sun Yang, studiasse anche la storia del doping nel suo Paese, potrebbe forse avere un’idea più chiara dello sport pulito, in tutto il mondo.
Per capirsi meglio, senza fare qui il lungo elenco dei campioni di tutte le nazioni che si sono dopati e non sono stati puniti o, peggio, che sono stati coperti dalle loro Federazioni nazionali, basta citare il caso degli Stati Uniti nell’atletica: omissioni, positività tenute segrete e non punite, lo scandalo Balco con decine di velocisti dopati, a cominciare da Marion Jones, e soprattutto il mitico Carl Lewis, che addirittura disse apertamente di essere stato trovato positivo al doping e che era stato giusto non squalificarlo. Con quale motivazione? La risposta è in un articolo dell’inviata speciale di Repubblica, Manuela Audisio, in un articolo del 2003. Ai Trials di Indianapolis, gara di qualificazione all’Olimpiade 1988 di Seul, Lewis viene trovato positivo tre volte: per efedrina, pseudoefedrina e fenilpropanolamina. Ecco la dichiarazione di Lewis contenuta nel pezzo della Audisio: “Era contenuta in un integratore alle erbe che prendevo, io non lo sapevo. Ma comunque non mi ha mai dato alcun vantaggio. Sfido chiunque a provare che l’efredina possa migliorare le prestazioni”.
Insomma, decideva lui, insieme alla Federazione statunitense, quale doping è permesso e quale no. E aggiunge che c’erano molti altri atleti nella sua stessa situazione, addirittura centinaia, “graziati” dopo essere stati trovati positivi nei controlli antidoping. Manuela Audisio chiude il pezzo facendo la considerazione più logica: “Il problema non è se la sostanza aiuti o meno, ma se sia vietata. Lo era. Ma non abbastanza per l’America”.
Già, l’America e gli altri Paesi come l’Australia, la Gran Bretagna e tutti quelli i cui atleti hanno applaudito Horton a Gwangju possono decidere cosa è doping per loro e cosa è doping per gli altri. E le due cose non coincidono.