La scena di un abbronzatissimo Gerry Cardinale che annuisce compiaciuto dal palco dirigenziale di San Siro dopo il gol del connazionale Christian Pulisic è destinata a rimanere, comunque andrà la stagione del diavolo, nell’iconografia rossonera. Se fossimo in un fumetto Marvel la nuvoletta sopra il capo di mister RedBird verrebbe riempita da una semplice onomatopea: “Wow!”. “Christian Pulisic è uno di quei giocatori che sarebbero tanto piaciuti a Silvio Berlusconi” – pensieri e parole di Paolo Scaroni e come dargli torto.
Pulisic è già entrato nella Storia del Milan: primo giocatore a stelle & strisce a segnare una rete in maglia rossonera. Il buon Christian ha però saputo fare di meglio iscrivendo il proprio nome nella ristretta cerchia dei giocatori del Milan in grado di andare a segno in entrambe le loro prime due presenze ufficiali; in precedenza ci erano riusciti solo Jeremy Menez, Mario Balotelli, Andriy Shevchenko e Oliver Bierhoff. Non proprio degli sprovveduti.
Il neoacquisto del PSG Dembelé, il cyborg travestito da bomber scandinavo Haaland, l’enfant prodige Jude Bellingham e Jadon “The Rocket” Sancho. Quando scioriniamo i giovani talenti cresciuti con indosso la maglia giallonera del Borussia Dortmund nell’ultima decade, Christian Pulisic è un nome che non si può tralasciare. Nonostante siano ormai passati sette anni e mezzo da quando, nella morsa del freddo di un giorno di fine gennaio 2016, fece il suo esordio in prima squadra in Bundesliga appena diciassettenne, allora l’età minima per poter debuttare nel campionato tedesco.
A differenza degli altri, tutti arrivati in punta di piedi – con l’ovvia eccezione di Haaland – le aspettative che si portava dietro quel giovanissimo yankee sembravano impareggiabili per il talento che esprimeva e per quello che poteva rappresentare per il calcio d’oltreoceano. Una scena, tanto per restare in tema di supereroi, da multiverso. Nemmeno il più sognatore tra i tifosi gialloneri avrebbe mai immaginato di poter vedere il cognome di un proprio beniamino sulla schiena di LeBron James in una foto su Instagram da oltre due milioni di like: luglio 2018, l’uomo di Akron posa di spalle con indosso la maglia di Team USA per fare i migliori auguri al nuovo capitano della nazionale di soccer. Curioso che il soprannome che si è guadagnato poi negli anni Pulisic sia proprio ‘LeBron’.
Tante aspettative che andavano di pari passo con quanto si vedeva in campo nelle sue prime apparizioni. Una questione di DNA: mamma e papà sono stati calciatori a livello professionistico e sono rimasti nel calcio anche dopo. Parte dei meriti, però, sono soprattutto farina del suo sacco e non è solo una questione di passione, quest’ultima esplosa durante un anno trascorso vivendo in Inghilterra con il padre e girando di stadio in stadio.
È stato lo stesso papà a volerlo portare al Dortmund, declinando con fermezza le lusinghe del Barcellona, sconsigliatogli dall’agente Rob Moore: era stato invitato infatti ad un provino a La Masia. Per la tigre a stelle & strisce l’habitat ideale era la Germania. E grazie al passaporto croato del nonno Mate, che è il secondo nome di Christian, ha potuto iniziare immediatamente, nel febbraio 2015, a muovere i primi passi nel settore giovanile.
Da lì è iniziato il processo di crescita, sotto lo sguardo dell’uomo che più di tutti ha creduto in lui, vale a dire Thomas Tuchel, con cui nel 2021 è poi diventato campione d’Europa col Chelsea. L’attuale tecnico del Bayern gli ha dato progressivamente sempre maggior fiducia garantendogli un posto nelle gerarchie in attacco: nonostante la presenza in spogliatoio di Dembelé, Reus e Aubameyang, gli irrinunciabili nel tridente con cui il Bvb aveva affrontato l’annata 2016/17, Pulisic giocava e spesso risultava determinante. Si è plasmato giocando più nel settore centrale del campo, mentre alle volte si è mosso più al largo. Una polivalenza che gli tornerà molto utile anche in rossonero.
Il bilancio finale numerico è di 5 gol e 13 assist in circa 2200 minuti di utilizzo, una media di una contribuzione a partita, in una squadra costruita per essere una macchina da guerra che produceva gol a nastro (113 il bilancio totale). La tribolata partenza di Dembelé in estate destinazione Barcellona doveva di fatto liberare un posto nel tridente e al netto degli arrivi di Yarmolenko dalla Dynamo Kiev e Philipp dal Friburgo, più un giovanissimo Jadon Sancho dalla parte Citizen di Manchester, sembrava essere tutto apparecchiato per il banchetto della definitiva investitura di Pulisic.
Un avvio a razzo e la successiva crisi di risultati della squadra allenata da Bosz prima e Stöger poi ridimensionò gli obiettivi dei gialloneri, ma anche le ambizioni dello statunitense, che pur avendo a disposizione il maggior minutaggio della carriera, unica stagione finora in cui ha superato i 3000 minuti, rimase intrappolato in quel limbo di grande talento non ancora espresso totalmente, alternando prestazioni da stropicciarsi gli occhi a giornate incolori, grigie, da dimenticare, appesantite dalla delusione per la mancata qualificazione ai mondiali di Russia con la nazionale.
L’ultima stagione prima di partire verso Stamford Bridge, l’ha vissuta addirittura da malinconico comprimario, per non dire riserva, complice l’esplosione di Jadon Sancho, che ormai aveva indiscutibilmente fatto sua la maglia da titolare sulla corsia destra dell’attacco, con a sinistra altre opzioni per dare più equilibrio, soprattutto Larsen. Un passo indietro così netto che a gennaio, quando il Chelsea si presentò con un’offerta superiore ai 60 milioni di euro, nessuno se la sentì di rispedirla al mittente.
Il Pulisic di Dortmund è rimasto così un incompiuto: 127 partite, la sua griffe su oltre quaranta reti tra gol e assist, svariati record di precocità infranti. È riuscito a far risplendere sul palco del calcio internazionale il proprio talento, ma non a imporsi al livello a cui era lecito aspettarsi arrivasse se fosse riuscito a dare continuità a certe sue sfolgoranti prestazioni. Ad oggi per il Borussia il neomilanista resta una delle sei cessioni più remunerative nella storia insieme ai quattro menzionati in apertura e ad Aubameyang. Rispetto agli altri, però, non è riuscito in giallonero a toccare un picco di supremazia tecnica che, però, ha sempre dato la sensazione di possedere.
Ora, a 25 anni da compiere a settembre e con un quadriennio al Chelsea alle spalle tra alti e bassi, il nativo di Hershey, Pennsylvania, può aver raggiunto quella maturità per essere trascinatore dal punto di vista tecnico anche nei club europei, come riesce già a fare con indosso la maglia della nazionale. Un peso che per sua fortuna sarà ripartito anche sulle spalle dei vari Leao, Theo Hernandez e Giroud su tutti. Le avvisaglie sono esaltanti, il futuro di Pulisic si gioca, come cantavano i Litfiba, tra passato e presente forte di un’età che è ancora tutta dalla sua parte.