*articolo ripreso da torino.corriere.it
Il mio novembre è cominciato con una sentenza per il negazionista deficiente che ero stato, per un pochino di tempo, all’inizio della storia: Covid. A 85 anni compiuti e due polmoniti significa(va) condanna a morte, e credo che proprio per questo mi sia stata evitata la terribile terapia intensiva.
Cinque ricoveri, i canonici giorni (22) di diciamo decorso, la lettera dell’autorità sanitaria: sono guarito, forse perché non ho mai, ma proprio mai, fumato e ho fatto tanto sport per conoscerlo sempre più e meglio, essendo io stato dalla nascita o poco più avanti giornalista sportivo. In parallelo, per scrivere di ippica meglio sarebbe stato essere cavallo, lo dissi a Luciano Moggi, quando ci parlavamo.
Il ricovero deciso dalla mia prima figlia, mio grande medico di base. Conoscendomi eccome, aveva capito che qualcosa dentro di me stava impazzendo. Con me nella sua auto ha cercato un ospedale: giravamo per Torino, al Maria Vittoria, vicino a dove sto, troppo caos, andiamo all’Astanteria Martini. Al pronto soccorso mi hanno preso. Avvertiti di una mia carenza di ossigeno, mi hanno messo sulla barella accanto a un uomo vecchissimo (alla vista, almeno), immobile, muto, intubatissimo tutto, ogni tanto dalle sue narici i due tubetti venivano spostati nelle mie.
La prima notte è stata dell’orrore: poco personale al pronto soccorso assaltato, pochissimi i traumatizzati diciamo classici, invasione di noi del Covid, sulle barelle ma talora anche per terra a fare strame. E urla e gemiti, il personale commovente per dedizione — tutti sigillati nella tuta di plastica, un supplizio — ma come spazzato via dallo tsunami della super-emergenza. La mascherina alta sul naso, sempre! Un solo gabinetto per, credo, un duecento dannati. Né serratura né acqua, tanto liquido disinfettante, questo sì. Ci andavo strisciando sul ventre tipo i marine in esercitazione, se provavo a camminare rischiavo di infilare un piede nella pancia di qualcuno. Nessuno a trafficare con lo smart-phone, guarda un po’.
Due medici in camice e basta mi hanno riconosciuto come giornalista, mi hanno detto di esser lì per aiutare, ma di non saper cosa fare. La notte più tremenda della mia vita: banale, facile dirlo, ma è così. Orrore più che terrore. Cibo? Non ricordo. Il giorno e la notte dopo leggero alleggerimento delle presenze. Un po’ di cibo vero. Il gabinetto sempre un dramma. Il vecchio mio compagno di ossigeno spogliato per essere lavato da ragazzone forti e commoventi, le sue gambe ridotte a ossa di animale, lunghi stinchi, nessuna vita di pelle, di sangue, solo una legnosità spaventosa. Non lo dimenticherò mai. Lo hanno portato via, morto penso.
Terzo giorno e chiusura del pronto soccorso. Invenzione e diciamo allestimento miracoloso di un ospedale al primo piano, Covid 1: giusto ma poca fantasia. Barella, stanza a due, un mezzo paradiso, bagno e water e acqua, tanta acqua. Cortisone, eparina con punture nella pancia da farmi da solo. Il cibo con tante pappette benedette.
Due giorni e altri due piani più su, Covid 3, mi venne in mente il racconto (Piero Chiara?) Il fischio al naso, nel film Tognazzi sale sempre di piano, la strana malattia sua va sempre meglio sinché se ne muore.
I miei tre figli meravigliosi e anche parenti vari, quelli positivi (come i miei figli) senza drammi, con decorso controllabile e controllato, mi facevano avere persino i giornali. Trump e Toro, meglio del pane e anche del tartufo. Ancora due giorni e in ambulanza — regia misteriosa — a Villa Pia, altro ospedale Covid appena nato, proprio sulla strada di Mongreno dove abitavo a guerra appena finita, la mia vasta stanza da Covid nata sotto la curva dove sostavo ogni giorno a riposare, sette chilometri e mezzo a piedi andata e ritorno per andare alla scuola giù a Sassi.
Personale ipersigillato nella plastica, donne e uomini appena assunti, grande impegno e cortesia costante, ma mi dissero di non sapere come sistemare la carta igienica nel contenitore in bagno, facessi un po’ io. In stanza a vedere la televisione con Muhammad, marocchino fatto italiano, trent’anni meno di me, tre figli: è diventato un amico.
Ne beneficeranno soprattutto gli enti di Asti, Vercelli, Alessandria e Fossano che così potranno garantire le erogazioni. Cibo ottimo con pollo, polpette, frittate, formaggio, si è pappato un’amatriciana senza che facessi in tempo a dirgli cosa è il guanciale. Una settimana e poi, sempre in ambulanza, a casetta mia in facile isolamento sino alla comunicazione che dice del miracolo, e mia domanda alla Nanni Moretti: se non muoio, faccio brutta figura? L’ho fatta, bruttissima, la sto mettendo in una sorta di libro, non vedo l’ora di parlarne con i miei otto nipoti.
Gian Paolo Ormezzano
*articolo ripreso da torino.corriere.it
**foto ripresa da da www.marcoscarzello.it
***Gian Paolo Ormezzano, classe 1935, torinese, giornalista e scrittore. Una vita tra Tuttosport e La Stampa, ha seguito 23 edizioni delle Olimpiadi, estive e invernali, 28 Giri d’Italia, 12 Tour de France e diversi mondiali ed europei di calcio, pallacanestro, nuoto e atletica. Scrittore sportivo prolifico, fervente torinista e antijuventino.