Già la parola “Coccodrillo”, come si chiama in gergo il ricordo di una persona scomparsa, gli avrebbe strappato uno dei suoi sorrisetti enigmatici. Com’era lui, Roberto Perrone, come me classe ’57 anche lui sbarcato dal suo mondo in un grande giornale nel 1981 ed espulso brutalmente dalla RCS appena compiuti i 58 anni con un prepensionamento che ci aveva unito più che mai. Anche nella rafforzata voglia di continuare a scrivere, a guardare, a capire, magari a spiegare.
“Perri” aveva una scrittura facile e leggera, non certamente banale, anzi, che contrastava molto con certi suoi scatti umorali, certi atteggiamenti snob, certe battute taglienti che regalava generosamente a chi non gli piaceva o non stimava. O che secondo lui non lo apprezzava il giusto.
Quando ebbi un momento per conoscerlo meglio, a tu per tu, all’Olimpiade di Seul nell’88, glielo chiesi proprio. “Ma tu ci sei o ci fai?”. Mi guardò con l’aria furibonda che annunciava le sue sfuriate istantanee ma tumultuose e scoppiò a ridere. Mi spiegò che spesso non era lui: lo forzavano i problemi fisici che lo accompagnavano da tempo, le rinunce a tavola, gli sguardi ironici di qualcuno, qualche problema personale, la sensibilità del raccontatore e un po’ di diffidenza. Eravamo molto diversi, ma da allora mi ha sempre chiamato “Vincenzino”, mi ha invitato a cena a casa sua con le nostre famiglie, mi chiedeva della mia vita e io della sua. Grazie alla stima reciproca, ci siamo sempre perdonati i nostri difetti caratteriali. Raccontandoci storie che erano o potevano diventare fantastiche, storie che poi ho ritrovato nei suoi romanzi e ogni volta gli ho segnalato strappandogli una risata scrosciante: “Quindi ti ricordi, quel viaggio in treno, e quella ragazza che avevamo guardato tanto?”.
Genovese, fortemente legato alle sue tradizioni e al mare, ‘Perri’ era instancabile. Aveva cominciato Avvenire, a Genova, era emigrato a Milano al Giornale di Montanelli, si era fatto davvero conoscere al Corriere della Sera e quando un tumore fulminante se l’è portato via scriveva per il Corriere dello Sport, per il Foglio, per riviste culinarie, la sua grande passione. E scriveva di tanti sport, dal calcio al tennis, alla pallanuoto agli sport olimpici. “Benvenuto fra i cronisti pedalatori”, lo punzecchiavo, mentre lui faceva qualche smorfia di sforzo all’inseguimento di una dichiarazione, un gesto, un tratto particolare dell’ultima storia.
Vedendo il successo come scrittore, dal magistrale Zamora, da cui Neri Marcoré ha tratto un film, al suo amato Annibale Canessa, nato dalla passione per il Maigret di Simenon, mi sentivo ancor più onorato della sua amicizia. E sono fiero di averlo stupito spuntando fra il pubblico un paio di volte alle presentazioni dei suoi libri ed acquistandoli con dedica. “Gli amici i libri degli amici li devono comprare”, diceva sempre fintamente burbero.
Come altri – confesso – ero affascinato dalla sua cultura, dalle tante letture, della memoria prodigiosa e anche dalla capacità di farsi degli amici veri in un mondo come il calcio, con personaggi comunque molto forti come Buffon e il povero Vialli. L’ultimo, non a caso, di cui ha scritto.
Al tennis si è affacciato tardi ma era sinceramente incuriosito della complessità dello sport e, con la sua classe, sapeva captare e delineare certe sfaccettature dei personaggi e delle situazioni più di altri abituali frequentatori, sfrondando la narrazione da tecnicismi e numeri. Ha scritto di coppa Davis, di Roma, di qualche Slam e ha contribuito ai libri storici Giunti/Fitp che abbiamo confezionato insieme negli ultimi anni: dai “Gladiatori della terra rossa” (di cui uscirà a maggio una riedizione) a “Italiani in Coppa Davis”.
Soffriva da un po’: aveva disertato qualche chiamata, rispondeva solo via sms, mi segnalava nuovi problemi fisici, nuovi allarmi, nuovi stop e aveva rimandato “la nostra famosa cena”. Mancherà allo sport e alla narrazione in generale. E mancherà a me e a chi gli ha voluto bene. A cominciare dalla pazientissima moglie, Emanuela, la sua prima ammiratrice, e ai figli Cecilia, Rachele Giovanni che devono sostenere una complessa eredità.
Alla famiglia di Roberto Perrone vanno le condoglianze della Federazione Italiana Tennis e Padel, del suo Presidente Angelo Binaghi e di tutto il movimento