Uno dei pericoli maggiori di un giornalista è quello di apprezzare troppo chi vuole intervistare. Fortunatamente, non mi è capitato spesso, ma tutte le volte che mi trovo davanti Vincenzo Santopadre, faccio uno sforzo per non scivolare nelle famigerate interviste genuflesse. Capitemi: è sempre educato, gentile, disponibile, positivo, ieri, da giocatore, quando pennellava un tennis d’autore, tutto di tocchi mancini magari senza potenza e velocità, ma affascinanti, oggi, da allenatore che ha sta accompagnando in alto il primo allievo, il 22enne Matteo Berrettini in tre anni, dagli over 500 del mondo al numero 54.
Quando ha cominciato a seguirlo? “Nove anni fa, al circolo Aniene, avevo appena lasciato l’agonismo”.
Che cosa l’ha colpita subito di Matteo? “Che non voleva i risultati subito, ma capiva che la crescita di un giocatore è un percorso lungo, fatto di tante esperienze, a cominciare dalle reazioni a vittorie e sconfitte, l’obiettivo non è domani ma molto più in là. Senza fretta, metabolizzando tutto. E, per farlo, bisogna saper ascoltare e mettere in pratica quello che dice l’allenatore”.
In che cosa vi somigliate, come esseri umani? “Per come ci poniamo davanti alle cose e alle persone, e dell’uso che facciamo nostro senso dell’umorismo particolare”.
Al di là dei 33 anni di età, perché ha chiuso col tennis giocato? “Il mio compagno di doppio, Stefano Pescosolido, smetteva, e il mio tecnico Vittorio Magnelli, voleva stare di più con la famiglia. Ma, soprattutto, non avevo più lo stimolo per competere”.
Quanto guadagna da allenatore? “Dagli ultimi due anni sto guadagnando bene, anche se la passione per me è davanti a tutto”.
Qual è il suo credo tennistico? “Che il giocatore non dev’essere costretto a fare qualcosa in cui non creda, dev’essere autonomo, infatti il tecnico azzurro Umberto Rianna – col quale ho un bel rapporto – mi avvicenda nei tornei. Non può esserci dipendenza, in campo ci va lui, è lui che prende le decisioni”.
Lei è stato anche uno dei primi allenatori di tennis a credere ne preparatore mentale. “Ho imparato nel tempo quanto sia importante l’esperienza mentale, e quindi ascoltare e condividere. Perciò Stefano Massari ci segue”.
Eppoi c’è questa sua gentilezza nell’accompagnare i ragazzi. “La mia filosofia è che i giocatori devono crescere gradualmente: il motore è sempre lo stesso, ma via via, bisogna fare degli innesti importanti, senza strappi e traumi”.
La Fit ha instaurato un bel rapporto coi coach privati. “E’ un rapporto corretto: aiuta Matteo, non lo sradica dalla sua realtà, lo lascia al suo coach, ma intanto ne sostiene in tutti i modi l’attività”.
Ma come spiega questo bum del tennis maschile italiano, mentre quello femminile è scaduto? “Intanto ci sono sempre dei cicli, poi magari ci si è concentrati di più proprio sui maschi che erano indietro e, come palestra, sono stati molti utili i tanti tornei minori che si disputano in Italia”.
Qual è stato il peggior momento della stagione di Matteo? “La sconfitta con Kudla nel primo turno degli Us Open, era insofferente”.
E il più bello? “Quando ha vinto Gstaad”.
Qual è la cosa che fa più contento l’allenatore Santopadre dell’allievo Berrettini? “La sua crescita costante, tutto l’anno, e la gestione delle sconfitte. Così si dimostra davvero forte e pronto alle nuove sfide”.