Fred Weymer è un gran bevitore di vodka ed è soprattutto un ex adepto del partito nazista americano. Gli Stati Uniti gli hanno vietato l’ingresso nel Paese.
Fred Weymer è anche l’uomo che amministra i conti bancari in Svizzera del dittatore dello Zaire, Joseph Mobutu.
Modunga Bula vive a Bruxelles ed è un altro operatore delle finanze di Mobutu.
John Daly è il presidente della Hemdale Films, una casa produttrice di film impegnata anche nel campo televisivo.
Hank Schwartz è il presidente della Video Techniques, la compagnia che provvede alla tecnologia satellitare per la maggior parte dei match trasmessi a circuito chiuso negli States.
Weymer, Bula, Daly, Schwartz e un quinto uomo siedono a Parigi attorno a un tavolo, nel ristorante di un famoso albergo. È qui che definiscono il match più pagato della storia del pugilato: cinque milioni di dollari per Ali, stessa cifra per Foreman. A pagare sarà lo Zaire del dittatore Mobutu, a caccia di una patente di credibilità.
Il quinto uomo si chiama Donald King, per tutti è più semplicemente Don King. È uscito due anni e mezzo prima dal carcere dove ha scontato una pena per omicidio colposo. Ha tentato la carriera di manager, ma i suoi pugili sono tutti finiti knockout.
Ora è impegnato nell’affare del secolo. Padrone solo della sua dialettica, convince i rivali a firmare un contratto per la grande sfida. Poi, trova i soldi.
Nasce “Rumble in the Jungle”.
I nemici dicono che i suoi capelli siano come lui: non rispettano nessuna legge, neppure quella di gravità. Don King ha una spiegazione più spirituale.
«Stavo cercando di prendere sonno quando mi sono sentito come un rombo in testa. Sono corso allo specchio e ho visto i miei capelli dritti come frecce. Anche il barbiere, il giorno dopo, non è riuscito a far niente: ogni volta che provava a tagliarli, sentiva come una scossa. Era il segnale divino: è da quel momento che sono in missione per conto di Dio».
Ho parlato più di una volta con Don King anche se definirle interviste mi sembra improprio. L’omone che viene da Cleveland ascolta le domande e poi si lancia in un rap in cui mette in fila la comunità nera, celebri scrittori, la grandezza dell’America. Chiude ogni verso con una fragorosa risata. Ride quando parla del suo conto in banca, ma anche quando racconta la sua lite con Mike Tyson.
«Troppi Jago attorno a lui. Gli hanno sussurrato all’orecchio mille bugie, hanno messo nella sua testa falsità. E lo hanno rovinato. Mestatori di professione hanno convinto Mike che io ero il nemico. Ma basta guardare quello che ha fatto quando era con me e quello che ha fatto dopo, per capire chi fossero i nemici.»
Ride e il pancione trema. È un omone taglie forti, 192 centimetri per 120 chili, vestito con poco riguardo per i colori e con quei capelli sparati verso il cielo si fa fatica a non notarlo. A dimenticarsi di lui furono però molti dei testimoni chiamati in tribunale nel lontano 1966. King aveva ucciso un tale di nome Sam Garrett, sbattendolo sul marciapiede e rompendogli la testa. Il primo verdetto fu di omicidio di secondo grado, poi diventato omicidio preterintenzionale. Tre anni e undici mesi nel penitenziario di Marion, dove legge Omero, Shakespeare, Hegel, Socrate. Da ragazzo non poteva permetterselo. Il papà era morto quando lui aveva nove anni, precipitato nell’acciaio fuso. La mamma vendeva torte. Lui, non appena l’età e il fisico glielo permettono, riscuote e paga le puntate del bingo per il boss locale Tony Panzanello.
Poi, è arrivato Ali.
«Il match tra Ali e Foreman a Kinshasa è stata la cosa più grande che abbia fatto nella mia vita. L’orgoglio del popolo nero. Siamo come il pugilato, usciamo a testa alta dalle guerre che il mondo ci fa. Oggi non ci sono più grandi pesi massimi. Ma è ingiusto paragonare epoche diverse. Una volta la posta viaggiava sui pony, oggi vola con i jet. Io dico: torniamo indietro nel tempo, alle tradizioni. Restituiamo il pugilato ai grandi personaggi. Solo così riconquisteremo il mondo e vedremo un nuovo Ali».
A Kinshasa tutti sanno chi è Ali. È un eroe.
Foreman non sanno neppure che faccia abbia, solo al suo arrivo scoprono che anche lui è nero. Quando scende lungo la scaletta dell’aereo, si fa precedere da un pastore tedesco. Quell’animale offende gli africani perché i belgi, quando il Congo era una loro colonia prima di diventare Zaire, usavano i pastori tedeschi come cani poliziotto quando andavano in giro per le loro spedizioni punitive, quando prelevavano uomini che poi avrebbero torturato.
Ali vive in mezzo alla gente, cattura il popolo perché è uno di loro. Ali affascina, incanta, entusiasma. Foreman è solo con il suo clan. Lontano dagli africani, solo con la sua superbia. Solo quando si fa male in allenamento, quando nella sfida mondiale va giù come un fantasma. Qualcuno parla di riti voodoo. La realtà è che l’unica arte magica di cui rimane vittima Big George è sprigionata dall’uomo che lo ha sconfitto.
Ali ha bisogno di tre cose per vincere la sfida. Controllo della mente, del corpo e aiuto della gente. Ha un vantaggio: conosce la sconfitta, l’ha già assaporata contro Frazier e Norton. George Foreman si crede imbattibile. Ali sa anche che non può più ballare.
«Vola come una farfalla, pungi come un ape».
No, Bundini, stavolta non si può. Bisogna che quel gorilla del campione si stanchi a forza di picchiare, lui intanto impara ad alzare la soglia del dolore facendosi sistematicamente colpire da Larry Holmes, suo sparring in allenamento, futuro campione del mondo. L’Africa è con lo sfidante, l’altro è solo un bianco travestito da nero.
«Ali boma ye, Ali boma ye» urlano i ragazzi che vivono nelle baracche accanto al fiume Congo, i diseredati vittime della dittatura del presidente Mobutu, i poveri, i sognatori. Ali uccidilo, Ali uccidilo.
Foreman si fa male in allenamento, tutto è rimandato di sei settimane. Il 30 ottobre del 1974 Ali viene torturato per sei round dal grande George. Mazzate di devastante potenza su un corpo immobile, un martirio che intristisce gli animi. Fermo alle corde Ali fa sfogare il nemico. L’altro perde sicurezza, vede calare la propria forza. E Ali è sempre lì, in piedi davanti a lui. Nell’ottavo round si compie il capolavoro. Lo sfidante esce dall’angolo, mette in fila una serie infinita di colpi chiudendo con un destro che nessuno potrà mai dimenticare. Poi non colpisce più, non ce n’è bisogno. È nuovamente campione del mondo.
Piove, diluvia su Kinshasa. È festa in onore del re tornato a comandare il mondo. L’acqua pulisce le imperfezioni del vecchio regime, di quello fatto di violenza e di nessuna saggezza di George Foreman.
Il gigante è crollato, Big George si è arreso all’ultima magia di Ali.
*articolo ripreso da https://dartortorromeo.com/2019/10/30/ali-foreman-quarantacinque-anni-dopo-la-leggenda-continua/