“Quando sei nato non sapevi neppure cosa fosse l’odio. Quindi per forza, crescendo, deve esserti successo qualcosa.
Qualcosa di brutto.
La tua “cotta” storica era innamorata di un bambino peruviano?
Un giorno una studentessa senegalese davanti a te nella fila ha comprato l’ultimo panino al bar della scuola?”
Con queste domande sarcastiche, Maxime Mbandà, nazionale azzurro di rugby, padre congolese e madre beneventana, si è rivolto su Facebook al tifoso che in occasione di Fiorentina-Napoli di qualche settimana fa ha riservato (non certo da solo) fischi e insulti razzisti al difensore partenopeo Kalidou Koulibaly. In realtà il suo post dice molto di più ed è davvero profondo e sentito.
Mbandà è lo stesso sportivo che ad aprile 2020, nel pieno dell’esplosione del Coronavirus, mentre quasi tutti noi eravamo trincerati sul divano di casa, era impegnato nel volontariato in ospedale e per questo è stato insignito dal presidente Mattarella del titolo di Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica (la nostra Benedetta Borsani l’aveva intervistato per Sportsenators su quella nobile esperienza).
Il “tifoso” è stato poi individuato, denunciato e sul piano sportivo condannato a un DASPO di 5 anni, pena massima per un incensurato. Per sua fortuna, non è stato individuato dalle telecamere televisive, eventualità che Mbandà aveva citato nel suo intervento social quasi come deterrente: “Da figlio, oppure da genitore, da zio, da nipote, da amico: cosa sentiresti dentro se quella persona presa di mira fosse tuo padre, tua madre od uno dei tuoi figli? Ci sono le telecamere, le riprese. Non vorrai mica che la gente sappia che sei un razzista!”. Sorte che invece è toccata a un altro “collega”, il tizio che alla fine di Lazio-Fiorentina è stato pizzicato dalle telecamere di DAZN. Una sfortuna epica perché l’immagine stava in realtà inquadrando in primo piano Afred Duncan, centrocampista viola, durante l’intervista post-partita. Mentre Duncan parlava, sullo sfondo nelle prime file c’era questo Paperino razzista che proprio in quel momento stava riversando il suo odio dal labiale incontrovertibile: “Negro di m****!”
Altro episodio recente, durante il riscaldamento prima di Juventus-Milan, il portiere rossonero Mike Maignan è stato ricoperto di insulti. Le telecamere dell’Allianz Stadium hanno identificato il colpevole, un sindacalista di Rovigo.
L’unico aspetto positivo è che in tutti e tre i casi la Procura Federale si è subito attivata e le società in causa hanno offerto piena collaborazione. Tutti e tre i gentleman protagonisti hanno dichiarato, scusandosi, che non sapevano cosa gli fosse successo, che erano fuori di sé. Non per buonismo, ma potrebbe anche essere vero. Spesso lo stadio ti trasforma, tirando fuori il peggio. In un momento di forte frustrazione, possono uscire parole aberranti. Solo che ci sono due problemi non da poco:
1) se escono vuol dire che sono passate per la mente prima, elaborate anziché subito bloccate all’ingresso;
2) anche se qui scriviamo che sì, in un momento particolare e fomentati dallo stadio, potrebbe anche capitare, non avremmo minimamente il coraggio di dirlo in faccia a uno come Maxime Mbandà o come Mike Maignan. Ci sentiremmo infinitamente piccoli e miserabili.
E allora lo possiamo anche scrivere, ma ci rendiamo conto che non esiste. Altro che “non dovrebbe, ma purtroppo potrebbe anche capitare”. Non esiste al mondo, punto.
Tre episodi fra i tanti di cui il nostro calcio è ammorbato. Anche se forse, stavolta, qualcosa inizia a muoversi. Non tanto per le pur nobili parole di Giorgio Chiellini dopo Fiorentina-Napoli, lui juventino da anni ma toscano e con un passato nei viola: “Mi sono vergognato come italiano e come toscano“. Quanto per la presa di posizione molto forte di una delle “vittime”, il n.1 milanista Maignan, che nei giorni successivi ha attaccato i dirigenti del calcio con frasi che possono benissimo figurare a manifesto sociale:
“Bisogna essere più numerosi ed essere uniti in questa battaglia contro un problema sociale più grande del calcio stesso. Nelle stanze che governano il calcio, le persone che decidono sanno cosa si prova a sentire insulti e urla che ci relegano al rango di animali? Sanno cosa fa alle nostre famiglie, per i nostri cari che lo vedono e che non capiscono che potrebbe ancora succedere nel 2021? Non sono una “vittima” del razzismo. Sono Mike, in piedi, nero e orgoglioso. Finché possiamo dare la nostra voce per cambiare le cose, lo faremo“. Non c’è stata nessuna risposta ufficiale, ma di sicuro Gravina, Ceferin e colleghi non devono essere stati entusiasti. Un sasso, nemmeno così piccolo, è stato scagliato.
Ottimisti o meno, comunque, sarebbe un grosso errore ritenere il calcio l’unico sport malato di odio razziale in Europa. Persino il rugby (per tornare a Mbandà), sport spesso preso ad esempio per il rispetto e la vicinanza tra avversari e tifosi, non ne è esente. Un episodio ai limiti dell’incredibile, riportato dal sito specialistico onrugby.it, ha riguardato una partita della terza serie francese (Pro D2), lo scorso settembre. Durante Aix en Provence-Nevers, il mediano di mischia Ludovic Radosavljevic ha usato queste parole contro l’avversario di colore Christian Ambadiang: “Ti do fuoco, mangia banane!”
La commissione disciplinare ha ascoltato i due giocatori e sanzionato Radosavljevic con una pena esemplare: squalifica di 35 settimane. Stagione praticamente finita dopo due giornate e licenziamento da parte del club per cattiva condotta. Da regolamento, la pena avrebbe potuto essere anche più pesante, 51 settimane di stop, evitate per due motivi:
– l’essersi scusato ed essere pronto a pagare, anche con attività nelle scuole;
– il suo comportamento in 13 anni a livelli anche molto più alti (ha giocato a lungo nel Top14, la massima serie d’oltralpe) era sempre stato impeccabile.
Il pugno duro della federugby francese è stato scelto come esempio nella battaglia contro il razzismo. Le nostre federazioni sono altrettanto inflessibili?
Altro sport di recente assurto agli onori delle cronache, la boxe di casa nostra, con quell’osceno spettacolo che ha in qualche modo mestamente avviato la costante presenza della città di Trieste su giornali e telegiornali nazionali, tra cortei novax, rivolte portuali, sparatorie in pieno giorno tra gang rivali nel mercato della droga. Proprio Trieste, la città di Italo Svevo e Umberto Saba, ora dipinta ingiustamente ma inevitabilmente col suo volto peggiore. L’osceno spettacolo è il titolo italiano dei pesi superpiuma del 18 settembre, con il pugile di casa Michele Broili che sale sul ring col petto tatuato di simboli nazisti. Esplode la polemica e la federazione condanna e prende subito le distanze, spiegando che non può essere responsabile per ogni singola iniziativa presa dai suoi tesserati. Anche qui c’è un risvolto bizzarro. Broili perde il match contro l’italo-marocchino di Asti Hassan Nourdine, che non rinuncia a un commento molto efficace: “Vista la situazione, c’è stato anche più gusto a vincere”.
Qualche giorno dopo, la FIP deferisce e sospende il pugile fino alla fine delle indagini preliminari, fissata al 19 novembre. Tutto bene, finalmente anche da noi si sceglie la fermezza… Peccato che il match incriminato non fosse l’esordio di Broili, ma il titolo italiano dei superpiuma. Possibile e accettabile che la FIP non sapesse nulla? Il coach del triestino, Denis Conte dell’Ardita Trieste, lo difende parlando di un atleta rigoroso nella preparazione e corretto dentro e fuori dal ring. In particolare, sui tatuaggi è netto: “La federazione già sapeva dei tatuaggi da parecchio”. Ed emerge un precedente che inchioda la FIP. Nel febbraio 2020 la stessa Ardita Trieste aveva organizzato una riunione, la “Trieste Boxe Night”, con una locandina che raffigurava proprio Broili a petto nudo, coi tatuaggi già presenti, con tanto di simbolo del Comune di Trieste. Immediate le polemiche dell’opposizione, con la Giunta che si difende sostenendo di non sapere nulla e facendo rimuovere dalla locandina la foto di Broili. Foto che è stata anche pubblicata da Mauro Berruto nel suo tweet di condanna, l’indomani del match col titolo italiano in palio.
Un pugile con il corpo coperto da tatuaggi di ispirazione nazista e il suo allenatore, ex segretario regionale di Forza Nuova, fondatore della palestra “Ardita”, candidato al consiglio comunale di #Trieste…
La #boxe è “noble art”,
questa una piccola storia ignobile. pic.twitter.com/DwaymA6GhD— Mauro Berruto (@mauroberruto) September 21, 2021
All’epoca la FIP non muove una foglia. Dopo un anno e mezzo, riecco Broili con gli stessi tatuaggi a combattere per il titolo italiano. Se davvero la federazione non sapeva nulla, è evidente la sua totale assenza. Se sapeva, come sembra, è palese il ritardo con cui è intervenuta, solo dopo che tutti i giornali sportivi e non hanno denunciato la vicenda.
La strada della lotta al razzismo nello sport, almeno da noi, sembra essere ancora molto lunga e tortuosa.
*immagine (di Luca D’Urbino) tratta da Facebook