“Matto abbastanza da accettare sfide all’apparenza impossibili”. Basta una citazione per delineare l’identikit di Luca Banchi, dallo scorso luglio alla guida dell’AEK Atene, squadra vincitrice delle ultime edizioni della Coppa di Grecia e della Champions League, e reduce dal successo di Rio nella finale della FIBA Intercontinental Cup, contro il Flamengo (86-70).
Il giusto mix di genio e sregolatezza ha issato l’allenatore di Grosseto sul tetto del mondo dopo le tante stagioni trascorse ai vertici del basket italiano (gli scudetti nel 2013 con la Mens Sana e nel 2014 con l’Olimpia Milano oltre alle panchine della Nazionale Under 20, dell’Italia sperimentale e dell’Italia militare) e quella vissuta in Germania con il Brose Bamberg, che ha portato con sé tanti nuovi stimoli insieme alla consapevolezza di voler arricchire ulteriormente il proprio bagaglio cestistico internazionale. Dall’esperienza del 2018 ne è infatti derivato l’approdo in Grecia, terra di miti e di leggende, in cui Banchi si è rivelato essere l’eroe giusto al momento giusto.
Lo scorso anno, proprio nello stesso giorno, l’AEK Atene aveva vinto la coppa di Grecia, poi è arrivata quella dei Campioni e adesso l’Intercontinentale. Viene da dire che si è completato un cerchio perfetto…
“Sembra un disegno celeste, qualcosa scritto nelle stelle. Sono venuto a conoscenza della data alla vigilia della partita ed ho provato a far sì che nessuno si concentrasse su questo fattore per evitare di creare ulteriori aspettative. L’attenzione per quest’appuntamento era già forte, soprattutto se si considera che una realtà come l’AEK in Grecia è schiacciata dalla presenza di due colossi come Panathinaikos ed Olympiacos. Pertanto, vincere un trofeo diventa qualcosa di unico, rarissimo, quasi irripetibile ed aver avuto diverse opportunità nell’arco di un anno solare ed averle sfruttate tutte, rende il momento ancora più magico”.
Si tratta di una squadra storica ma dalla società giovane che cinque anni fa è stata vicina al fallimento ed è retrocessa in terza serie. Una bella storia di rivalsa ma anche una sfida impegnativa quella che ha accettato…
“Una bella storia soprattutto per il presidente, Makis Angelopoulos, un autentico visionario ed appassionato di sport. Dietro il successo della squadra c’è molto della sua organizzazione. Ha messo a disposizione le sue risorse per risollevare l’attenzione sulla sezione basket dopo un periodo di grandissima difficoltà economica. Ha avuto il coraggio di non nascondere mai la sua ambizione di voler portare l’AEK ad alti livelli in tempi rapidi. Ho accettato la proposta di un club che nella stagione precedente era stato capace di conquistare sia la Champions League che la Coppa di Grecia. La sfida era andare a sostituire Dragan Šakota, che ha scritto una pagina forse irripetibile nella storia della pallacanestro.In questo mestiere il tempismo gioca un ruolo fondamentale e approdando in una realtà simile c’era soltanto da perdere, per certi versi. Per me fu lo stesso nel 2013, quando accettati il ruolo di capo allenatore del Siena dopo la partenza di Simone Pianigiani. Contro ogni aspettativa, riuscimmo a ripeterci vincendo sia la Coppa Italia che il Campionato. Direi che sono matto abbastanza per accettare delle sfide così complicate, e se quella di Atene poteva sembrare difficile, quella di Siena era completamente folle! Dopo aver superato un esame del genere mi sento pronto ad affrontare qualsiasi cosa”.
Com’è allenare all’estero?
“Quella del coach è di base una professione molto challenging, ti impone di metterti alla prova, ma farlo all’estero ha la particolarità di rendere ogni giorno ancora più interessante ed affascinante”.
Come è percepito il basket in Grecia?
“Dopo quel famoso campionato europeo in cui emersero i talenti di grandi campioni come Galis e Giannakīs, il basket divenne sport nazionale. A contribuire è stato anche l’importante budget a disposizione delle due superpotenze Panathinaikos ed Olympiacos, che hanno avuto la possibilità di ingaggiare i migliori tecnici ed i migliori giocatori. Ne è quindi derivata la costruzione di tanti impianti e playground. Ad oggi la nazione è letteralmente divisa in spicchi: si gioca e parla di basket ovunque e l’AEK è una delle squadre più seguite, non solo nella pallacanestro. Quando sei un uomo AEK lo sei a prescindere dalla disciplina. Fa un certo effetto muoversi in una metropoli come Atene e sentire addosso l’affetto, la passione e la partecipazione di così tanta gente, cosa paragonabile soltanto al calcio in Italia”.
Ci sono differenze sostanziali fra il basket nostrano e quello greco?
“Sicuramente. L’impatto mediatico è completamente diverso: in Grecia il prodotto basket nell’ambito dei diritti mediatici ha ancora un valore economico. I match di coppa e di campionato vengono trasmessi su tre canali distinti, tra cui uno nazionale, il che dà accesso alla pallacanestro a chiunque. Questo credo sia lo scoglio principale alla divulgazione del basket in Italia. Il numero di partecipanti è diverso: ovunque ci sono squadre e accademie, cosa che nel nostro Paese si vede meno, anche se i palazzetti sono molto frequentati (soprattutto in A1), mentre in Grecia non c’è così tana partecipazione da parte del pubblico, forse per via della sovraesposizione televisiva. Una cosa che invece ci accomuna è la problematica legata all’impiantistica, che non riesce ad essere un motore di coinvolgimento per nuovi tifosi”.
Come è stato accolto al suo arrivo e che clima ha trovato nello spogliatoio?
“Sono stato accolto molto bene, ad Atene c’è una percezione positiva della scuola tecnica italiana. Il club è abituato ad avere tecnici provenienti dall’estero, il che sicuramente ha aiutato. Negli ultimi anni si sono succeduti grandi allenatori all’AEK. Non è semplice arrivare e cercare di avere un impatto importante su un ambiente già abituato all’eccellenza. Sono stato voluto fortemente dal club e mi è stato chiesto esplicitamente di abbinare competitività e valorizzazione delle risorse. Di fatto, non nascondo la soddisfazione nell’essere riusciti a mettere spesso in campo tre prodotti del settore giovanile, che per un basket competitivo come quello greco è una rarità”.
A tal proposito, com’è organizzata la squadra? In passato ha parlato di tre nuclei principali…
“Pur avendo trovato uno spogliatoio con giocatori che non avevo mai allenato, ho notato subito grande disponibilità al lavoro oltre che capacità. Fin dall’inizio avevo ben chiara l’idea di costruzione che volevo dare alla squadra. Andava salvaguardato il nucleo vincente dello scorso anno (anche se una parte di loro, complici le leggi di mercato, è andata a monetizzare i risultati ottenuti) poiché avrebbe contribuito a velocizzare i processi di aggregazione dati dallo stress causato dall’arrivo di nuovi compagni di squadra e di una nuova guida tecnica. Al primo si è aggiunto un secondo gruppo di giocatori vincenti provenienti da altri contesti agonistici, che è servito a portare l’abitudine a gestire la pressione e le esigenze di un club di vertice. Infine ho dato risalto ai giovani, di cui non si poteva prevedere l’impatto ma che hanno risposto alla grande”.
A quale coach si ispira?
“Ho avuto l’opportunità di costruire la mia carriera in città importanti come Livorno e Siena, anche se vengo da Grosseto che non ha una tradizione di grandi allenatori. Fin da subito mi sono dato molto da fare per colmare questo gap, girando il mondo ed entrando a contatto con tantissimi coach. Il nome più ricorrente per gli allenatori italiani della mia generazione è quello di Ettore Messina, un punto di riferimento sia per motivi di natura tecnica che gestionale. Inoltre, negli anni livornesi, aver avuto l’opportunità di lavorare quotidianamente con Gianfranco Benvenuti mi ha arricchito ancora di più. Mi ha spalancato le porte della sua conoscenza, della sua pallacanestro, ed è una cosa che cerco di fare anche io con gli allenatori più giovani”.
Tornando alla finale, c’erano tante aspettative attorno all’AEK. Qual è stata la chiave del successo?
“Siamo riusciti a garantire un livello di performance consono alla nostra identità. Abbiamo affrontato un lungo viaggio, giocavamo con avversari a noi sconosciuti, in un continente diverso con un clima irrespirabile e a prescindere da tutto siamo riusciti ad imporre il nostro stile”.
Come avete festeggiato?
“Come si dice in questi casi: quello che succede a Las Vegas resta a Las Vegas… quello che succede a Rio, pure! (ride, ndr)”.
Cosa dobbiamo aspettarci adesso? Vi siete già prefissati nuovi obiettivi?
“Bisogna aspettarsi che la squadra non subisca l’effetto rebounding post-Rio ma che utilizzi questa vittoria per trovare ancora più spinta e motivazione. Non sarà facile combinare le varie fasi di recupero perché alcuni dei ragazzi sono stati convocati in nazionale e torneranno pochi giorni prima della ripresa ufficiale del campionato. Saremo chiamati ad essere subito performanti, la prima sfida sarà fondamentale in chiave playoff. Giocheremo in casa con il Promitheas, che all’andata ci ha battuto e con cui condividiamo la seconda posizione in classifica. A pochi giorni di distanza ci sarà anche il primo turno eliminatorio di Champions League. Per ora ragioniamo una partita alla volta poi gli obiettivi stagionali devono essere ragionevoli”.
Si vede ancora all’estero in futuro, ha qualche altro sogno da realizzare? Magari un ritorno in Italia?
“L’esperienza all’estero è qualcosa che ho fortemente voluto. Concluso il ciclo di Milano, sapevo che difficilmente avrei trovato progetti altrettanto stimolanti nel basket nazionale. Non rimpiango la scelta di Torino perché il tempo ha dato ragione alla mia visione, sapevo che si poteva fare di più in una città che cova una passione così smisurata per il basket. Le tappe di Bamberg ed Atene mi hanno dato conferma del fatto che anche la mia prossima destinazione sarà all’estero e non necessariamente con un club, magari con una nazionale”.