Eureka! Fabio Fognini dà finalmente concretezza e continuità alle sue fenomenali qualità tecno-fisiche coniugandole al tempo giusto e coordinandole alla pazienza. Non a caso, ci riesce proprio nel torneo del Principato di Monaco, di sangue blu anche come storia, con un pedigree, datato 1897, legato ai gesti bianchi di questo sport, quando i più grandi svernavano sulla Costa Azzurra. Non a caso, domina con la magistrale naturalezza dei campioni il principe ereditario dei Big Four, il numero 3 del mondo, Sascha Zverev il presuntuoso, viziato dal servizio-bomba, ed il più grande campione di sempre sulla terra rossa, il 2, il mitico Maciste di Maiorca, Rafa Nadal, con le giunture tenute insieme solo dall’orgoglio da leone.
La sorpresa non sta negli sprazzi da fenomeno e nemmeno nei successi sui più forti, perché quelli li ha sempre tirati fuori – sporadicamente – dal capello a cilindro da mago della racchetta, e lo ha fatto anche lontano dalla prediletta terra (ricordate la rimonta da due set a zero sotto agli Us Open 2015 proprio contro Nadal?).
La sorpresa sta nel comportamento di questa settimana di passione a Montecarlo: la calma, nella continuità di rendimento, giorno dopo giorno, partita dopo partita, nella capacità di resettare subito, dopo un set regalato all’avversario come dopo un fallo di piede – che ogni tanto gli scappa – ma che può essere drammatico in una partita come quella di sabato contro Nadal, come nel passaggio da Rublev, alla pericolosa vacanza di tensione per la rinuncia di Simon, a Zverev a Coric a Rafa, uno dietro l’altro in un Bolero irresistibile.
La sorpresa non sta di certo in quello sguardo, come sempre mefistofelico, con due occhi sfavillanti, sempre vivi e veloci come i piedi alati. Che avrebbero fatto felici Omar Camporese, l’ultimo tennista di primissima qualità post Adriano Panatta(quindi anni ’70-’80). La sorpresa sta nella nuova maturità espressa almeno in questi giorni a Montecarlo. Il torneo che, da apripista della stagione sulla terra rossa europea, ogni anno regala sorprese ma mai e poi mai avrebbe ipotizzato una finale Fognini-Lajonic. Con tutti i favoriti decapitati, compresi il rientrante Djokovic e bum-bum Medvedev, intrattabile fino al 5-1 dell’ultimo match contro Serbia II, e poi evaporato come neve al sole.
Fognini non risorge, non riparte, non si rilancia, non si toglie gli schiaffi dalla faccia. È sempre stato lì, così come adesso, solo che spesso gli è mancata solo l’ultima tessera per completare il puzzle di quel gioco impossibile chiamato tennis. Malgrado avesse trovato la chiave di se stesso nell’incredibile luglio del 2013, quando, proprio dopo le semifinali di Montecarlo, infilò tre finali in tre settimane consecutive, aggiudicandosi Stoccarda ed Amburgo e cedendo sotto il traguardo di Umago.
Il talento è così: fantastico, unico e personale, diverso, strano, è talmente un regalo divino, che è ugualmente inaudito, inatteso, inspiegabile, imprevedibile. Come quell’anticipo del ligure che toglie il tempo a tutti gli avversari, come quel non-servizio in un tennis che si basa sul servizio, come quella portentosa fase difensiva da primi 3 del mondo, come quella velocità di partenza (da gatto), come quella sconcertante varietà di colpi (di tutti i colpi), come la capacità di tagliare il campo con angoli impensabili, come quel rovescio che annulla il gancio cielo del mancino Rafa (colpendo la palla prima che si alzi in cielo) e disegna lungolinea che spezzano le gambe del re di 11 Roland Garros e 11 Montecarlo.
Proprio guardando più in sù, ai più grandi di sempre, anche il talento di Roger Federer e Tiger Woods può appisolirsi, può restare silente, può disperdersi in dubbi e pezzettini minuscoli, e anche spegnersi e riaccendersi per un refolo di vento. Fino a diventare un boomerang micidiale e trasformarsi in frustrazione, vergogna, rabbia. Come ben sa il nostro campione a intermittenza, Fabio Fognini da Arma di Taggia (Imperia), ad appena 70 chilometri da Montecarlo. E quindi ancor più amato dal pubblico che affolla tradizionalmente il torneo.
Non è mai troppo tardi, recita il proverbio. E Fabio il 24 maggio compie 32 anni, quindi ci sta che sia pronto a recuperare qualche soddisfazione smarrita per strada. Comprese un paio di occasioni per entrare nei “top ten”, una, clamorosa, proprio a Montecarlo, nel 2014, quando si perse da solo, contro Tsonga. Adesso è padre e marito.
E, come spesso accade, ha alle spalle una grande donna, Flavia Pennetta. Che non possedeva di certo il talento tennistico di Fabio, ma ha ricevuto in eredità dai genitori assennatezza, classe ed umiltà. Armi decisive per soffiare in extremis al destino il trionfo Slam agli Us Open 2015, con cui ha chiuso a testa alta la carriera.
Siamo sicuri che dietro l’ultimo Fognini ci sia molto anche di lei. Flavia era nel destino di Fabio, sin dal nome, con la “F”. Come il suo, come quello del figlioletto Federico (chiamato così in onore dell’amico e collega di entrambe, Federico Luzzi, tragicamente scomparso a 28 anni per leucemia fulminante). Gli “F” comandano in casa Fognini, per volere di papà Fulvio che ha fatto una eccezione giusto per la moglie, Silvana, ma ha chiamato anche la figlia Fulvia. Papà, ha trasmesso a Fabio la passione (e anche le qualità) per il calcio e per l’Inter, anche se il figlio – buon centrocampista del Taggia – ha scelto il tennis.
Generoso, focoso, tifosissimo, col nome di battaglia di Fufo56 ribatte su Twitter al popolo dei social che spesso criticano il campione di famiglia. E, in questa settimana di passione, dopo cinque eliminazioni al primo ostacolo del figlio negli ultimi sei tornei, è stato l’uomo più felice del mondo, scatenato, in tribuna, finalmente pago dopo tanti momenti difficili. Da padre. Con quel figlio che tanto gli somiglia: molto buono dentro, un po’ ruvido e criptico fuori. Un funambolo. Che, lui non lo ammetterà mai, ha trovato un aiuto insperato nella nuova concorrenza del tennis maschile italiano, mai così vivace con l’avvento di Cecchinato, Berrettini, Sonego, Musetti, Sinner, Zeppieri, Nardi.
Non doveva dimostrare niente a nessuno ma ha trovato nuovi stimoli. Per ribadire qualità d’eccellenza diverse dagli altri indimenticabili campioni del tennis italiano. Nicola Pietrangeli era l’arte, Adriano Panatta era la fantasia d’attacco, Corrado Barazzuttiera la resilienza, Omar Camporese era la potenza, Fabio Fognini è la magia. Inspiegabile, affascinante, fantastica, diabolica. Infatti, malgrado tutto, malgrado sia il primo italiano ad arrivare in finale in un torneo Masters 1000 (nati nel 1990, secondi per partecipazione e premi solo ai quattro Slam), malgrado sia il primo a tornare in finale a Montecarlo da Corrado Barazzutti nel 1977 (sconfitto da Borg), dopo la triplice di Pietrangeli, campione ’61-’67 e ’68, malgrado abbia battuto per la terza volta il re dei re sulla terra rossa Nadal (infliggendogli appena la quarta sconfitta in 16 anni a Monaco), l’ingresso nei “top ten” è ancora rimandato. Lontano 245 punti dal paradiso dei tennisti. Pochi, tanti, troppi? Chiedetelo a Fufo56.