Il rugby è così. È Novembre 2018, ti chiami Joe Schmidt, sei neozelandese e alleni l’Irlanda. Arrivano a Dublino gli All Blacks e la tua piccola isola di smeraldo li sconfigge. Gli addetti ai lavori si sorprendono fino a un certo punto, perché molti di loro già prima ti vedevano dopo la Coppa del Mondo in Giappone tornato in patria, head coach degli All Blacks. Ti presenti al mondiale da n.1 del ranking, ma perdi contro il Giappone n.10, clamoroso, prima di venire eliminato nettamente dalla stessa Nuova Zelanda che avevi battuto un anno prima. Oppure sei Steve Hansen, head coach degli All Blacks, sei il campione del mondo in carica, qui in Giappone fai percorso netto, dopo aver battuto nei gironi un grande Sudafrica, ma in semifinale vieni annichilito dal gioco asfissiante di un’Inghilterra magnifica, subendo una lezione tattica da Eddie Jones. O sei lo stesso Eddie Jones, inizi la Coppa del Mondo quasi da outsider, perché l’Irlanda è la prima del ranking, gli All Blacks sono gli All Blacks e il Sudafrica ha appena vinto il Rugby Championship. Hai però la pressione del Paese rugbisticamente più potente sulle spalle, perché ti hanno ingaggiato per arrivare al top alla Coppa del Mondo. La tua squadra dimostra di esserlo, fino alla semifinale da leggenda dove insegni rugby agli All Blacks, poi 7 giorni dopo fai (quasi) la stessa fine dei neozelandesi contro di te, e perdi netto la finale alla quale arrivavi da inatteso favorito.
Una mischia in grado di sovrastare nove volte su dieci quella inglese, storicamente fortissima, una difesa tanto solida quanto arrembante in risalita, la costanza di Pollard ai calci (tra i pali 8 su 10), una forza mentale spaventosa nel contro rispondere quasi immediatamente alle reazioni dell’Inghilterra spiegano la meritata vittoria del Sudafrica, campione del mondo per la terza volta, come gli All Blacks, ma avendo giocato due Coppe del Mondo in meno, le prime due edizioni del 1987 e 1991, esclusa per l’Apartheid.
Le cose cambiano molto in fretta in questo sport. Un bel paradosso per un sport molto meno aperto alle sorprese del calcio, nel senso che è molto più difficile, per il sistema di punteggio e l’importanza della conquista territoriale, che singola partita sia vinta dalla squadra che ha giocato peggio. In realtà, è proprio la difficoltà a essere molto costanti a livelli altissimi che cambia le cose in pochi giorni.
Il Sudafrica è campione del mondo, gli Springboks ritornano il simbolo di enorme riunificazione nazionale in un paese ancora lacerato da contraddizioni e mille divisioni interne. Nelson Mandela, dal cielo, osserva sorridente e sereno i suoi Bokke, riconosce Francois Pienaard, il capitano bianco di allora, che lui aveva premiato dopo aver difeso senza se e senza ma una squadra che fino a un mese prima era il simbolo della prepotenza bianca afrikaner nella terra dei neri. Madiba, la loro guida, non ci pensava nemmeno a seguire le intenzioni dei suoi fratelli che l’avevano salvato e poi fatto diventare capo di stato. Non si poteva cambiare quel nome, Springboks, perché era parte integrante della storia del Sudafrica, della parte di gente dalla pelle bianca che dopo l’elezione di Mandela rischiava di passare in blocco da oppressori a oppressi, in un’atroce inversione delle parti che non avrebbe cambiato il risultato di una nazione spezzata in due. Dopo 24 anni, la Rainbow Nation è tutt’altro che unita e priva di tensioni. Ma come a Johannesbourgh nel 1995, oggi torna a sentirsi una cosa sola, un unico popolo, quel popolo che nel 2007 esultava nelle case e nei bar davanti alla tv per il secondo titolo vinto a Parigi. Davanti alla tv di un bar, perché a casa sua la tv non c’era, esultava e sognava un ragazzino di 16 anni, che oggi era a Yokohama a sollevare al cielo la Web Ellis Cup da capitano. È il capitano Syia Kolisi, Il primo capitano nero campione del mondo di rugby. Le sue prime parole sono state: “Sono grato ai miei compagni e alla mia squadra. Abbiamo così tanti problemi nel nostro paese, abbiamo origini ed etnie diverse, ma abbiamo dimostrato che se ci uniamo possiamo fare grandi cose. Questa vittoria è per la nostra gente”.
Madiba, osserva sereno da lassù, su una nuvola sopra l’Ellis Park di Johannesbourgh, da dove ha tifato insieme a Chester Williams, unico giocatore nero del Sudafrica campione nel ’95, e Joos van der Westhuizen, mediano di mischia della stessa squadra. Se ne sono andati a 49 e 46 anni, il primo per un infarto, il secondo per la sclerosi laterale amiotrofica. Non sono i soli di quella grande squadra ad avere avuto un destino maledetto. Ma se insieme al loro presidente vedranno un giorno la loro terra che riesce, tra mille contraddizioni, due passi avanti e uno indietro, a unirsi per davvero, il loro destino maledetto avrà avuto un terzo tempo davvero indimenticabile.