Se dovessimo dare retta alla simbologia dei nomi e delle situazioni, potremmo dire che il Benevento li rappresenta tutti. La città campana è la città delle Streghe? Ebbene, sì. Vola. Il presidente della società Oreste Vigorito è il re dell’eolico? Ebbene sì. Il vento è il suo segno distintivo. Ecco perché il Benevento di Filippo Inzaghi è volato sul campionato, non a raffiche discontinue, ma con costanza, determinazione. Nel suo cammino ha travolto ogni resistenza, sia canne deboli, sia muri che sembravano insormontabili. Era da 40 anni che in serie B (ricordate l’Ascoli di Mimmo Renna, stagione 1977-78?) non accadeva un diluvio diluito non dagli avversari, ma solo dal virus Covid 19. Perché anche la festa si è consumata in uno stadio vuoto. Il Ciro Vigorito, intitolato al fratello del presidente deceduto 10 anni fa, era spoglio, vuoto, ma tutto all’intorno in una comunicazione di tensione emotiva, fiatava la città che al gol di Sau (contro la Juve Stabia) è esplosa con il segno tangibile dei fuochi d’artificio lanciati nel silenzio.
Quando si commenta una promozione si cercano le chiavi, le situazioni, le svolte. Ma a Benevento stavolta tutto è filato liscio, come il vento che spinge lo spinnaker di una barca, costante, senza sussulti, come se una mano implacabile lo guidasse. In realtà le rotaie per il trionfo le ha poste Filippo Inzaghi, giocatore predestinato, il rapace dell’area di rigore, l’isterico uomo dell’ultimo tocco-killer trasformatosi in tecnico killer. Del campionato, vinto con 7 giornate di anticipo, con una difesa che ha subito appena 15 gol, che una volta sola si è distratta (a Pescara con 4 reti al passivo), ma poi ha regolato il pallottoliere sullo zero. Anche per 18 giornate di fila. Un capolavoro. Quell’Inzaghi che il precoce connubio sulla panchina del Milan sembrava aver svuotato, messo in pericolo. Ma Inzaghi ha sempre avuto il feeling con la vittoria, quell’istinto che lo ha portato a vincere a Venezia (promosso in B) e ora con il Benevento (in A) con una gavetta costruita sulle consistenze, non di un personaggio, ma di una cultura calcistica che ha avuto grandi maestri condensati in un interprete da tenere d’occhio.
Si potrà anche sindacare sul fatto che il Benevento abbia la rosa di calciatori più pagata della B, che Vigorito ha investito nel fior fiore, che Pasquale Foggia, praticamente al debutto, ha avuto il tocco felice su tante situazioni. Si chiamano combinazioni. La capacità di amalgamare (un verbo che un antico presidente credeva si potesse acquistare al mercato del Gallia di Milano) ha sortito una miscela davvero esplosiva, l’inarrestabilità di un complesso che ha suonato come un’orchestra sinfonica che ha esaltato il singolo al servizio del tutto. Filippo Inzaghi era il re dell’area di rigore, il terminale e probabilmente si poteva pensare che questa sua esperienza lo segnasse nell’impostare una squadra con questa idea di fondo. Invece il primo cannoniere del Benevento, Nicolas Viola, lo trovi al 12 esimo posto tra quelli della categoria, ma combinato con la predisposizione di altri 12 colleghi che hanno portato il cemento a un attacco che resta superiore a tutte le altre.
Il Benevento è stata squadra di esperienza e combattimento, quel bagaglio che ben è rappresentato dal suo capitano, Christian Maggio, 38 anni e lasciarli tutti scritti solo sulla carta d’identità, tanto anima e cuore lo hanno spinto verso il traguardo, come Nicolas Viola, il “ribelle timido”, un appellativo contraddizione, che le sue ribellioni senza timidezza le ha messe nei gol, nell’assoluta padronanza del suo destino, scelto con convinzione quando lasciò la Reggina, la sua culla. E poi Insigne, che di nome fa Roberto, il piccolino pronto a sfidare il fratello a Napoli, come il suo allenatore all’Olimpico di Roma. Potremmo raccontare di altri protagonisti, da Luca Caldirola, il tedesco che a Brema, ha imparato a fare il pifferaio della difesa, o il finlandese Perparim Hetemay che ha scongelato nel catino del Vigorito il suo destino. O Lorenzo Montipò, che ha il cognome di una favola e che parando e riparando ha tessuto una ragnatela davanti alla propria porta. Idolo nuovo del nostro calcio che si svecchia e trova nuove strade, supera nuovi confini. Ognuno dei protagonisti di questo soffio di vento, una tramontana inarrestabile, ha la sua storia, le proprie rivendicazioni per un approdo che sembra solo l’inizio e che potrebbe nutrirsi di nuove emozioni.
Perché è certo che il Benevento è già lontano dalla B, tante idee per distaccarsi da quell’ombelico che può diventare fastidioso dopo la prima ascesa e successiva caduta. Si pensa in grande e di questi tempi anche questa è una notizia. Perché il calcio ha bisogno di tanti Benevento, del vigore di progetti che smuovono la sedentarietà dei pensieri, soprattutto al Sud dove tutto sembra impraticabile, dove tutto è praticabile, come ha insegnato il Crotone (che lotta ancora per salire) o la stessa Salernitana che nel sogno del ritorno in A troverebbe nella Campania il nuovo senso calcistico della regione. Le feste, come quelle mancate per l’imprevedibile lockdown che ha fermato l’Italia, a volte quando sono intime si aprono a pensieri più profondi. Li avrà fatti Filippo Inzaghi, il cannoniere diventato stratega, il presidente Oreste Vigorito che di calcio non sapeva quasi nulla e che si è trasformato nel presidente d’altri tempi e che gli asset finanziari vorrebbero spazzare via perché ritenuto anacronistico, o Christian Maggio il diretto della fascia, un po’ più sbuffante, meno intenso, ma simbolo di quel non arrendersi mai che è modello del Benevento. La squadra campana ha interpretato anche i nuovi modelli di comportamento. Il distanziamento lo ha moltiplicato: 24 punti sulla seconda.