Alla fine Thiem il longilineo non ne aveva più mentre tra le brevi membra di Scwhartzmann c’era ancora birra per andare oltre!
Non sono bastati una sessantina game diluiti lungo cinque ore di gioco per ridurlo al lumicino e anche dopo il saluto finale le sue leve sembravano disposte a sgattaiolare ancora qua e là per il campo. Tra forza fisica e nervosa, l’argentino è una pentola a pressione nella quale basta mettere un dito per bruciarsi mano braccio e tutto il resto. Così quando tra le righe del Philippe Chatrier in Porte d’Auteuil si è conclusa la quarta frazione per via di un duro tie-break, tutti potevamo immaginare quale sarebbe stato l’epilogo di quel quarto di finale giocato in una piovosa serata parigina.
Thiem ha pagato lo scotto di essere stato poco conclusivo consumandosi a randellare da fondo senza chiamare in causa possibili variazioni impigliato nella subdola ragnatela tessuta lentamente dal sudamericano. E fin qui nulla di male: il tennis moderno si nutre ampiamente del gioco malmenato, tanto da laureare campioni di grandi doti fisiche e poco più. E’ un peccato, invece, che quel tennis finisca tra le mani di un giocatore la cui tecnica consentirebbe un’infinità di altre cose. Una buona duttilità e un buon controllo dei colpi fanno di Thiem il possibile erede dei fab four e sarebbe addirittura un predestinato se solo si preoccupasse di fissare l’incontro tra palla e racchetta più in alto di una buona spanna. Magari portandolo nella giusta fascia d’impatto, quell’area immaginaria compresa tra bacino e spalle, punto ideale per colpire dritto e rovescio negando dispersioni e sfruttando al meglio le componenti di spinta. Una zona di comfort all’interno della quale un rimbalzo medio, quello dal metro in su per intenderci, può essere compresso più agevolmente restituendo alla palla la medesima potenza maggiorata degli interessi.
Più alto o più basso di quella fascia, lo stesso colpo diviene sfarfallato o raccolto a seconda dei casi. Una visione del gesto che ha in Agassi e in Djokovic due interpreti di prim’ordine e che anche lo stesso Nadal sta finalmente mettendo in atto. Un diverso rapporto con la palla che si traduce in tempi di reazione fruttiferi, in grado di rosicchiare preziosi centesimi di secondo che finiscono per fare la differenza.
Naturalmente non è cosa da tutti, ma uno come l’austriaco ha la mano giusta per poterne approfittare. Domanda: perché non ritagliarsi una postura più avanzata mettendo il gioco sul piano del timing piuttosto che farne sempre una prova di forza? La migliore scelta di tempo offrirebbe all’austriaco anche maggiori possibilità di angolazione. Gli si aprirebbe un mondo nuovo insieme all’ampliamento di una prospettiva tattica che farebbe di lui un giocatore più illuminato e sicuramente più competitivo. Il problema è sempre lo stesso! Dinanzi a un giocatore già molto forte troppe volte non si azzarda l’idea di renderlo ancora più forte coniugando il rendimento con un’ottica evolutiva che non ha termine se non a fine carriera. Fino a quel momento il coach deve brigare tra mille soluzioni portando il giocatore a esprimere il meglio di se stesso. Solo allora avrà assolto a pieno il suo compito!
Nel caso di Thiem, i 16 titoli in bacheca, compreso il major di recente conquista, possono certamente essere considerati un grande risultato ma possono divenire fuorvianti se precludono una visione lungimirante verso ulteriori progressi. Per di più, vittorie e finali del buon Dominic, sono avvenute su ogni superficie, a dimostrazione che nelle sue corde vagano indisturbate qualità adattive di spiccata fattura. Le stesse sulle quali un buon allenatore deve far leva per arricchire il bagaglio tecnico del proprio pupillo. In caso contrario la carriera diviene un ripetersi monotono di situazioni in cui si fa sfoggio di luoghi comuni e poco altro.