I genitori non devono essere amici dei figli, a loro servono regole e ruoli chiari e precisi.
La tendenza negli ultimi anni rischia di produrre veri e propri disastri nella crescita dei figli e la confusione dei ruoli all’interno del nucleo famigliare può far scaturire una serie di problemi che poi sarà difficile risolvere.
Nello sport
L’attività sportiva a livello giovanile è una straordinaria esperienza educativa, è emozionante, divertente e come tale coinvolge facilmente i bambini e i ragazzi:
- ha una funziona ludica, sociale, insegna il rispetto di sé e degli altri, delle regole, il valore dell’impegno, la convivenza civile, la cooperazione, l’accettazione della sconfitta;
- accresce la fiducia in sé stessi aumentandone l’autostima;
- permette di scaricare le ansie, le frustrazioni e l’aggressività;
- favorisce l’incontro e facilita l’integrazione.
Nello sport attorno ai bambini e ai ragazzi che giocano ruotano numerose figure:
- l’Istruttore e l’Allenatore;
- il Dirigente;
- il Presidente;
- i genitori e i familiari.
Tutti partecipano a diverso titolo e in diversa misura a rendere l’esperienza sportiva educativa e formativa per i giovani giocatori.
Tralasciamo le altre figure (non meno importanti), ma affrontiamo l’argomento genitori.
I genitori
I genitori hanno sempre avuto un ruolo importante per la crescita sportiva dei propri figli, anche perché soprattutto a quest’età, i figli devono essere supportati (non esaltati, né tantomeno depressi) dai genitori, sia per gli stimoli continui che forniscono, sia per il grande aiuto che possono dare in fatto di educazione, lealtà, fiducia dei propri mezzi, orgoglio e autodeterminazione.
I genitori sono una risorsa positiva per l’attività sportiva dei propri figli, il rapporto delle Società Sportive con le famiglie è molto delicato, poiché mette in campo una serie di problematiche talvolta difficili da gestire:
- giorni e orari degli allenamenti e delle partite;
- il tifo a volte eccessivo;
- il rapporto con gli Istruttori e gli Allenatori (sollecitazioni, raccomandazioni, pretese);
- il rapporto con la Società.
In questo modo si viene a creare un duplice atteggiamento nei confronti delle famiglie:
- da una parte la partecipazione dei genitori è vissuta in modo positivo perché rappresentano una risorsa per la Società (collaborazione nelle trasferte, organizzazione delle feste, collaborazione dirigenziale);
- dall’altra parte molte volte le interferenze fanno nascere malintesi (es: padre che ha giocato da giovane e pensa di essere competente e quindi contesta l’operato dell’Istruttore) e malumori (“mio figlio gioca poco”, oppure “io lo farei giocare in un altro ruolo”), destinanti ad esplodere nei confronti dei Tecnici, dei Dirigenti e della Società stessa.
Con i genitori deve essere cercata un’alleanza, perché una collaborazione intelligente può aiutare a risolvere molti problemi, da quelli educativi dei bambini e dei ragazzi, alle molteplici incombenze organizzative societarie.
Il compito dei genitori è di insegnare ai propri figli che lo sport è un grande veicolo di valori fondamentali, che la vittoria è frutto di un duro lavoro e di un impegno costante e che non conta solo il risultato (capacità empatica).
Specialmente in età evolutiva il bambino e il giovane devono sentire questo appoggio incondizionato da parte dei genitori che li supportano e li valorizzano per quello che sono e non per quello che vorrebbero che fossero!
Ma purtroppo non sempre è così!
In alcuni sport, i genitori che seguono i propri figli durante la partita, pensano di avere dei piccoli campioni in campo.
Il tifo è per il figlio e non per la squadra, gli errori sono degli altri e non del figlio, se l’arbitro fischia contro il figlio è un incompetente, se l’Istruttore non lo fa giocare non capisce niente.
Sfogare le proprie frustrazioni sui figli, trattati come “alter ego” in grado di restituire l’immagine ideale che a volte non si è riusciti a raggiungere da giovani, contribuisce a capovolgere la realtà.
E’ profondamente contro natura, oltreché immorale, caricare di responsabilità un bambino o un ragazzo di 10-12 anni.
L’ambizione dell’adulto non può agire da scudo contro il momento dell’aggregazione, il bambino e il ragazzo vanno incontro al mondo, lo vogliono conoscere autonomamente e quindi devono essere lasciati liberi di giocare senza alcuna pressione, senza ricatti, devono divertirsi, devono rispettare le regole del gioco, i compagni, l’Istruttore, l’arbitro.
Nel calcio, di fronte ad alcuni episodi deplorevoli accaduti durante le partite a livello giovanile, la F.I.G.C. scrive “L’approccio educativo del mondo del calcio è troppo spesso uno specchio attraverso cui si riflettono comportamenti e atteggiamenti degli adulti, quindi competitività esasperata, esclusione dei meno dotati, accentuazione dell’aspetto fisico e agonistico”.
Nel Minibasket e nel Basket Giovanile spesso alle partite non ci sono gli arbitri, molti Istruttori si comportano in panchina da allenatori professionisti (urlano, imprecano contro tutti e tutto), difendono a zona per vincere le partite, molti giovani arbitri sono inesperti e commettono degli errori e dai genitori in tribuna arrivano insulti e improperi.
Nel tennis i bambini non ridono più, sono dei piccoli Nadal o Federer e il “mitico” Belardinelli (allenatore di Panatta) affermò in un’intervista, dopo aver visto durante le finali giovanili di un Torneo Internazionale di tennis il comportamento di qualche genitore: “E’ meglio avere giocatori orfani”. Agassi nel suo libro “Open” ha alzato il velo sulle torture psicologiche subite dal padre (ma quanti hanno smesso prima!).
La ricerca
Da una ricerca effettuata nel 2010 risulta che tra gli 8 e i 12 anni la maggioranza dei bambini pratica sport, solo per vincere e che molti genitori (che si sono comportati male durante le partite) negano di aver insultato l’arbitro o i giocatori della squadra avversaria, oppure di aver tenuto comportamenti inadeguati; dalla stessa ricerca risulta che la percentuale dell’abbandono avviene dopo i 12 anni (cause: non ci si diverte più, l’Istruttore è oppressivo, i genitori sono invadenti, ecc).
L’Educazione
Per fortuna ci sono genitori che si comportano in modo corretto, ma voglio sensibilizzare tutti facendoli riflettere sul termine EDUCAZIONE, cioè far balzar fuori il meglio dai propri figli.
Lo sport deve avere un aspetto educativo e non diseducativo, bisogna far capire a tutti che è molto più utile e formativo un comportamento positivo, di incitamento a in caso di errore, in modo che i figli in campo non perdano fiducia e autostima e di gratificazione in caso di un’azione ben condotta: tutto ciò ci aiuterebbe ad affrontare la competizione in modo sereno e rilassato.
La non Educazione
Non si educa se si promette un premio o si ricatta il proprio figlio in cambio di una prestazione super, bisogna “chiamarsi fuori” a volte e lasciarli decidere autonomamente.
Secondo me i genitori non devono:
- cercare di vivere attraverso il figlio una rivincita genitoriale;
- comunicare ai propri figli un giudizio negativo se pensano che l’Istruttore non stia svolgendo un buon lavoro (rispetto dell’autorità);
- dare suggerimenti tecnici in partita;
- fornire un cattivo esempio urlando contro arbitro e avversari.
Fondamentale è l’aspetto dell’incoraggiamento, del supporto, della collaborazione e della partecipazione.
La pressione deve essere corretta (“correct pressure”) e consiste nel supportare il figlio a dare sempre il massimo, a impegnarsi fin dove le possibilità lo consentono (ognuno ha il proprio DNA e non tutti sono talenti o campioni), a comportarsi bene in campo (fair-play). L’importante è spiegare loro che la vittoria non è il massimo, ma che se si perde e ci si migliora è come aver vinto: concetto difficile da far accettare al bambino o al ragazzo se il primo a non crederci è il genitore.
Bisogna far capire ai genitori che i bisogni dei bambini sono diversi dai loro. I bambini accettano l’errore e il fatto che un altro sia più bravo è per loro una cosa naturale, sono liberi di sbagliare, di calciare o di tirare come gli viene, di seguire il proprio istinto e sono liberi di assumersi le proprie responsabilità e di cavarsela da soli.
Nella vita si può perdere o vincere, ma è umano, basta vivere il tutto senza ansie eccessive o frustrazioni. E’ troppo facile dare la colpa all’arbitro se si è perso, oppure accusare i compagni di non impegnarsi, oppure di pensare che gli altri non ti passino la palla.
Oggigiorno l’importante è vincere!
Mi vien da ridere quando sento dire “L’importante è partecipare”. La famosa frase “l’importante è partecipare”, non appartiene a De Coubertin, ma all’Arcivescovo di Canterbury, che affermò, in occasione delle Olimpiadi di Londra del 1948, che “l’importante è confrontarsi e verificare quanto una persona vale”.
Molti genitori utilizzano lo sport per “insegnare a vincere nella vita” (“pushing parents”: pressione psicologica sui figli). Questo è un messaggio inopportuno, in quanto se il bambino recepisce il messaggio (ed è molto facile che lo faccia perché non è ancora in grado di sottoporre al vaglio critico gli input che gli arrivano dai genitori), diventerà probabilmente un furbastro, un violento, un apparente.
A volte molti genitori confondono il termine agonismo (voglia di confrontarsi e di verificare quanto uno vale) con l’antagonismo (vincere a tutti i costi) e questo porta ad una autostima da risultato: “figlio mio se vinci sei forte, se perdi sei scarso”.
Un cartello
Qualche giorno orsono ho trovato su un social un foto di un cartello affisso su una porta della sede di un impianto sportivo che testualmente diceva:
I GENITORI DI CAMPIONI SONO PREGATI DI PORTARE I PROPRI FIGLI IN UN’ALTRA SOCIETA’
Questo cartello riassume bene quello che succede sempre più spesso durante le competizioni sportive, infatti frequentemente mi capita di vedere e soprattutto di sentire genitori fare il tifo in modo molto poco sportivo e presi dal gioco diventano esagitati. Non c’è niente di più sbagliato perché tutto ciò, oltre ad offrire uno spettacolo orribile e indecente, può portare i bambini e i ragazzi che giocano a sentirsi legittimati a tenere comportamenti antisportivi o offensivi.
Conclusioni
Non sono Mosè, ma vi porto 50 anni di esperienza in ambito sportivo da genitore, Insegnante, Istruttore, Docente Universitario, Formatore, per me il genitore ideale e utile al figlio che pratica attività sportiva, deve rispettare e osservare questi 10 COMANDAMENTI:
- non limitare mai l’attività sportiva dei tuoi figli per punizione;
- non intervenire mai nelle scelte tecniche e nelle decisioni dell’Istruttore;
- non contestare platealmente davanti a tutti e non incitate alla scorrettezza.
- rispetta l’arbitro e la squadra avversaria;
- vai a vedere più spesso i tuoi figli quando giocano;
- vivi la gara o la partita in modo tranquillo e non traumatico;
- incoraggia i tuoi figli a impegnarsi sempre di più, facendo capire loro che l’impegno in campo o in palestra e a scuola sarà in futuro fonte di soddisfazione;
- cerca di rendere autonomi i tuoi figli, evitando di essere onnipresente in tutte le situazioni;
- fai capire loro che giocare significa anche divertirsi e socializzare;
- fai capire loro che la delusione di una sconfitta diventa un mezzo per crescere, perché “la non vittoria” stimola a migliorarsi attraverso gli allenamenti e questo atteggiamento si riflette positivamente sulla loro attività scolastica e in futuro sull’attività lavorativa.
La competizione fa parte della natura umana e i bambini e i ragazzi competono per natura, i bambini devono fare i bambini e i ragazzi devono fare i ragazzi, i bambini e i ragazzi giocano una partita per volta e vada come vada la terminano per cominciarne un’altra, senza mai perdere la misura dei propri limiti.
Concludo con un’ultima osservazione.
In Italia coloro che vanno a vedere le partite sono chiamati “tifosi” e la parola tifo significa malattia, in Inghilterra (ed è proprio lì che è nato lo sport) sono chiamati “supporters”, cioè coloro che vanno a supportare, a sostenere la propria squadra, non a offendere gli avversari o gli arbitri.
Il supporto positivo
Nel nostro Paese si deve passare da un modello basato sul tifo, inteso come spinta all’ottenimento di un risultato (secondo la massima “il fine giustifica i mezzi”) ad un modello basato sul supporto, che è una forma di appoggio che porta a gratificare il proprio figlio se si impegna, se dà il massimo, indipendentemente da quanto otterrà.
Significa dire al proprio figlio “ti supporto, ti gratifico perché sei mio figlio perché ti impegni e voglio principalmente che tu ti diverta e non “ti supporto e ti premio perché vinci”.
E’ importante che gli Istruttori e i genitori “supportino” lo sport dei loro figli e insegnino loro a vincere e a perdere senza eccessive esaltazioni o drammi.
Voltiamo pagina!