L’Italia e il mondo rispettano e ammirano Maradona, i napoletani e noi argentini gli vogliamo bene. Tutto il mondo lo onora, noi lo piangiamo. Nel calcio non abbiamo mai avuto dubbi, è stato il migliore di sempre: come giocatore, come leader, come motivatore. Lui era la super stella e l’uomo squadra: combinazione difficile, forse unica. Nessuno è stato amato tanto dai compagni. Lui è stato sempre uno di noi. Lo si poteva immaginare in ciabatte a prendere un mate con chiunque, a sparare cazzate, a ballare o cantare, a fare festa. Quando veniva chiamato dio, non era una bestemmia. Non era il Dio cristiano, islamico o ebreo. Era, ed è, un dio greco, con le passioni e i difetti umani che caratterizzavano gli dei della mitologia della Grecia antica. Era un mito da vivo, figuriamoci ora.
Come Vasco
La figura di Diego mi fa venire in mente Vasco Rossi, che è riuscito a fare il più grande concerto della storia europea in una città di 120.000 abitanti (Modena). Come mai? Io credo che il mistero sia nel fatto che la gente si identifica. In un verso, in una canzone o nella vita di Vasco, contraddittoria, semplice e complessa, con errori e trionfi. Anche Maradona ha fatto identificare la gente, soprattutto quella più in difficoltà. È stato trasversale. Come si può capire questo fenomeno mondiale? Io non lo so. Ma so che non si può utilizzare solo la logica. Si tratta di emozioni. Alcuni dicono che non è stato un buon esempio. Lui ha sempre detto che non voleva essere un modello per nessuno, quello che voleva era essere uno come gli altri. Questo gli è stato negato, ma non si è mai lamentato. I suoi peccati li ha pagati in contanti. Non ha cercato alibi. Nemmeno per la sua dipendenza dalla cocaina. Tuttavia io mi chiedo: quanto valgono, oggi certi valori? Non ha mai fatto una smorfia o protestato per il passaggio sbagliato di un compagno. Quando doveva correggere qualcuno, aspettava che si svuotasse lo spogliatoio, soprattutto se era giovane, come racconta Ferrara. Non si è mai lamentato per i falli e ne ha subiti tanti. Ha sempre difeso i compagni. Li considerava sempre i più forti e li faceva sentire i migliori. Poteva arrivare tardi a un allenamento, ma ha sempre giocato, infortunato o malato. È stato condizionato dalla dipendenza, ma mai dalla mancanza di motivazione. Se l’è presa con i forti, mai con i deboli: con il presidente degli Usa, della Fifa, della Afa (Federcalcio argentina), con Matarrese. Lui diceva cose che tanti di noi avrebbero voluto dire. Noi le abbiamo pensate, ma abbiamo misurato le conseguenze. Lui non misurava, agiva. È stato tradito dal suo amico d’infanzia e dal manager fidato, ma lui ha continuato a credere nelle persone. È stato un capopopolo, sia a Napoli che in Argentina. La sua gente lo amava, perché sentiva di essere amata dal più grande. Si sentiva capita, non giudicata.
L’idolo degli ultimi
Non è facile capire il fenomeno Maradona in Argentina e a Napoli, se non ci si riesce a mettere dalla parte di coloro che vivono in periferia, poveri, a volte meno educati, a volte maltratti, insultati, forse commiserati. Maradona era la rivincita, l’orgoglio, il leader. Non è possibile capire Maradona senza conoscere la realtà da cui è partito. La vita delle famiglie che abitano i quartieri poveri di Buenos Aires. Gestire tutti i cambiamenti vertiginosi, la ricchezza, la fama, l’uso che tanti volevano fare di lui. Ha gestito come meglio ha potuto, senza rinunciare alla sua identità, alle sue origini. Molte volte mi sono chiesto: se fossi nato in Villa Fiorito invece che in una famiglia di classe media a La Plata, avrei saputo gestirla meglio? Anche da qui nasce la mia ammirazione per Diego. Si è parlato poco della sua intelligenza e non solo calcistica. Nessuno avrebbe potuto gestire tutto quanto senza un’intelligenza speciale. I famosi due gol che Diego ha fatto contro gli inglesi nel Mondiale ’86, per tutti noi argentini hanno avuto un significato speciale. Chi non conosce la storia argentina non lo può capire del tutto. Dopo la conquista dell’indipendenza, l’Argentina è stata a lungo una colonia economica della Gran Bretagna, con tutte le condizioni svantaggiose che gli inglesi hanno imposto. In più, 4 anni prima del Mondiale c’era stata la guerra delle Malvinas, una guerra assurda della quale è stata responsabile la Thatcher e la dittatura militare del generale Gualtieri.
Malvinas
Personalmente non l’ho mai appoggiata, pur sostenendo che le Malvinas sono argentine. Sono morti centinaia di ragazzi per mano inglese. E 4 anni dopo la partita con l’Inghilterra, abbiamo vinto con 2 gol di Maradona: un gol d’inganno e il migliore gol della storia. Per tutti gli argentini è stata una soddisfazione inimmaginabile, perché se la mano de Dios era stata una scorrettezza, era stata vista come la risposta a tutte le scorrettezze vissute per mano inglese, era stata la rivincita dei deboli sui potenti. L’altro gol non ha bisogno di presentazioni: potevamo essere migliori degli inglesi, Diego poteva essere migliore. Il Mondiale ‘90 è ancora una ferita aperta. Vedere Maradona piangere come un bimbo ha fatto piangere tutti noi. Subire un’ingiustizia come il rigore con la Germania è stato difficile da digerire, ma sentir fischiare il nostro Inno da parte dei “cugini” italiani ci ha fatto ancora più male. Ho trovato Maradona una volta all’Olimpico con Gianni Minà. Mi ha ricevuto con un grande abbraccio. Sapeva tutto di ogni argentino che era in Italia. Sembrava un vecchio amico. Avrei voluto conoscerlo meglio. Prendere un mate insieme, mangiare un asado, conoscere la sua famiglia… Perché Diego era uno di noi. Sposo la definizione di un altro grande argentino: Il “Negro” Fontanarrosa: «Per dire la verità non mi importa cosa ha fatto Diego con la sua vita, mi importa quello che ha fatto con la mia». In realtà a tutti noi importava anche quello che faceva con la sua, ma era troppo doloroso pensarci.
Gracias Diego, te queremos mucho.
Julio Velasco
*ripreso da www.volleynews.it
*foto ripresa da www.parlandodisport.it