Nereo Rocco è morto quarantadue anni fa. Ne aveva soltanto sessantasei, era un mito sapendo di esserlo già molto prima. Da giovanissimo apprendista cronista l’ho conosciuto nell’estate del 1972, ero un collaboratore esterno di molti giornali, Rocco era in Umbria in vacanza con la signora Maria, sua moglie, ospite di amici milanisti. I quali pensarono bene di convocare la stampa locale in un piccolo locale di Spello, uno dei borghi più belli della regione. Sul tavolo, una bottiglia di rosso di Montefalco. Rocco aveva l’abitudine di concedersi un bicchiere a metà pomeriggio, gli piaceva condividerlo con gli altri. Ero emozionatissimo, Rocco era il primo personaggio davvero importante al quale avrei potuto rivolgere almeno una domanda. Mi occupavo di cronaca e sport, seguivo i dilettanti e al massimo il girone E della serie D. Rocco strinse la mano ai presenti, in tutto eravamo una decina di persone, ognuno declinò il proprio nome e quello del giornale che rappresentava. Rispondeva nel suo slang inconfondibile, mescolando l’italiano con il dialetto triestino, preoccupandosi che tutti comprendessero bene. Era un uomo assolutamente sincero.
Un cronista meno giovane di me gli chiese quali fossero, al di là di quel che si leggeva, i suoi rapporti con Gipo Viani, un altro personaggio monumentale scomparso nel 1969, amico-nemico di Rocco ai tempi del Milan. “Amici, siamo stati amici, anche se sui giornali se vincevamo il merito era suo, se perdevamo la colpa era mia…” Detta così, senza polemica, nel ricordo del compagno di avventure, Viani, veneto di Nervesa della Battaglia, quasi conterraneo, furbissimo nei rapporti con i media di allora. Disse che il Milan sarebbe stato competitivo per lo scudetto, che in effetti perse all’ultima giornata con la sconfitta nella fatal Verona, nella domenica del sorpasso della Juve con il gol di Cuccureddu a Roma, a tre minuti dalla fine. “o maggio 1973.
Rocco metteva tutti a proprio agio, che si trattasse di Gianni Brera all’ultimo dei cronisti. Brera celebrava puntualmente sul Guerin sportivo e sul Giorno la bravura del tecnico che meglio interpretava il calcio di scuola italianista: in sintesi, difesa e contropiede. Rocco aggiungeva che giocare, come fece lui nella seconda Coppa dei Campioni vinta nel 1969, con Rivera, Sormani, Prati e Hamrin contemporaneamente in campo non significava aver paura degli avversari: un regista-rifinitore, una mezza punta e due punte. Quel Milan si impose per 4-1 al Bernabeu contro il nascente Ajax targato Cruyff. Prati è tuttora l’unico italiano ad aver segnato tre gol in una finale del torneo più prestigioso d’Europa.
Da burbero gentile qual era, Rocco guardava con simpatia gli allenatori allora emergenti, come Giagnoni e Radice. E li punzecchiava bonariamente, alla sua maniera: “Per tutta la settimana leggo di proclami d’attacco, di gioco olandese, di pressing e fuorigioco, poi qualcosa cambia, magari ci ripensano, e alla domenica tutti indietro e si salvi chi può!” Il suo calcio era semplice, nel rispetto delle qualità dei giocatori. E che risultati, rimasti nella memoria popolare: il secondo posto con il Padova, il terzo posto con il Torino anni Sessanta, gli scudetti e le prime due coppe dei Campioni con il Milan. Anche qualche scelta sbagliata, come quella di accettare la corte della Fiorentina prima di essere chiamato d’urgenza al capezzale del suo Milan che rischiava la retrocessione nel 1977. E lui riuscì a salvare, prima di lasciare la panchina a Nils Liedholm, un altro dei grandi. Fu Liedholm a conquistare lo scudetto della stella, il decimo del Milan, quando Rocco non c’era più. Prima di morire, aveva scritto a mano un biglietto a Brera nel quale lamentava il fatto di essere costretto a bere soltanto acqua minerale. La cirrosi epatica stava per portarlo via. Resta l’eredità di mille frasi, l’eredità di un uomo che sapeva stare al mondo.
Enzo D’Orsi (foto tratta da https://storiedicalcio.altervista.org/)