Rilassato e sorridente: si presenta così all’intervista Lucas Mahias, alla prima stagione nella WorldSBK. Ed è un piacere chiacchierare con lui, perché parla volentieri dei momenti difficili, non soltanto di quelli felici. Di soddisfazioni il pilota francese se ne è tolte già diverse: dal primo successo, il Trophée Pirelli 600 nel 2010, all’ultimo, il Mondiale Supersport nel 2017 , “ma in mezzo ci sono state tante avventure. Avrei materiale in abbondanza per un’autobiografia, per tutto quello che mi è capitato. Chissà che un giorno, appeso il casco al chiodo, non provi a scrivere la mia storia” dice il rider del Kawasaki Puccetti Racing.
Capitolo primo capitolo: l’esordio in moto, diverso dalla maggior parte dei tuoi colleghi.
Sì, ho cominciato a 19 anni. Dopo avere consegnato pizze, fatto il meccanico e i lavori più disparati.
Come mai così tardi?
Tra i motivi principali, la mancanza di soldi e di sostegno da parte della famiglia. Sono la prova che non serve denaro o l’appoggio dei genitori per diventare pilota. Io davvero non avevo un centesimo e i miei si sono sempre opposti. Certo, il mio percorso si è complicato proprio a causa di questi ostacoli ma, quando ottieni un risultato con i tuoi mezzi, te lo godi di più.
Poi hai trovato qualcun altro che ti aiutasse?
“Non direi: mi sono sempre rimboccato le maniche e me la sono sbrigata da solo, anche a cercare i team. Ancora oggi non ho un manager che mi segue. Preferisco prendere le decisioni senza aiuti e le soddisfazioni che mi sono tolto mi hanno dato ragione.
La più grande?
Sicuramente il titolo mondiale. Era il mio primo obiettivo.
Il secondo?
Partecipare alla WorldSBK.
Qualche anno fa avevi detto che per te la categoria migliore era la 600.
Vero. Però, bisogna mettersi alla prova e rischiare. Ci ho provato dopo avere preso sicurezza con la cilindrata inferiore.
Com’è correre nella massima categoria?
Molto bello. Però, non sono un esaltato, non mi sento nessuno: tengo i piedi piantati a terra, qualsiasi cosa capiti. Soprattutto perché sono convinto di una cosa: i piloti non sono persone fuori dal comune, sono ragazzi normali che svolgono un lavoro magari un po’ speciale ma che, alla fine, resta un lavoro. E richiede massimo impegno.
Non ti senti una star, insomma.
Per niente. Non mi servono foto mentre mi alleno, al contrario di que colleghi che documentano sui social ogni giro in motocross. Io mi alleno una settimana di fila sulla pista kart e nessuno mi vede. A quattro gradi, sotto la pioggia, sulla stessa moto e con gli stessi pneumatici. Non devo dimostrare o dimostrare niente, sgobbo perché è una mia necessità: voglio migliorare e, volta per volta, imparo qualcosa di nuovo.
Cos’è la moto per te?
Nonostante la dedizione – per esempio sto attento alla dieta, sono uno di quelli che ingrassa due kg alla sola vista di un dessert – è puro divertimento. Non la considero nemmeno uno sport, per quanto mi piaccia.
Nel 2019 sei stato vittia un infortunio grave.
Una delle numerose peripezie che metterò nero su bianco (ride, ndr). A Valencia, ultima tappa della Coppa del mondo di MotoE, durante le libere, mi distruggo il mignolo della mano destra e subisco l’amputazione delle due falangi. Ai medici chiedo chiesto subito se possa tornare in pista nel weekend. Quanti messaggi vergognosi ricevo in quei giorni.
Del tipo?
Accuse sul fatto che non corra perché non ne ho voglia o non sono abbastanza veloce. “Con un mignolo rotto si può entrare in pista” è il succo dei testi. Sì, infatti io l’ho fatto e ho anche vinto. Peccato che le condizioni questa volta non siano paragonabili a una frattura. Per un bel po’ non posso nemmeno praticare sport, perché rischio l’infezione. Mi opero in Spagna e poi in Francia, non sono sicuro di tornare a gareggiare. Mi domando se riuscirò a recuperare la sensibilità, a frenare: il mignolo possiede il 40 per cento della forza della mano! Per fortuna durante la riabilitazione scopro che il corpo è una macchina perfetta e il cervello è in grado di resettarla affinché ogni parte funzioni a pieno regime.
Ci racconti un’altra peripezia?
2016, Portimão: io arrivo all’aeroporto, ma in circuito non arriva nulla: camion, moto, il vuoto totale. Il motivo? È sparito Josef Kubicek, proprietario del team Intermoto Pony Express. Non è l’unica esperienza del genere: una volta sembra tutto pronto, perfetto, invece le foto della moto che ho ricevuto sono finte. Un bluff. La moto non esiste.
Hai già vinto un Mondiale: hai capito come puoi fare per ripeterti?
Non esiste la ricetta, ma credo di sapere come essere competitivi. Secondo me, i primi cinque o sei piloti, in qualsiasi campionato del mondo, si equivalgono. La differenza la fanno i dettagli: c’è chi è più forte in frenata e chi dà il meglio di sé quando sente il fiato dell’avversario sul collo. Pochi o pochissmi sono più dotati: è la testa che ti permette di alzare l’asticella.
Cioè?
Devi arrivare a pensare che sei in griglia per vincere. Senz’altro ti dà una mano enorme chi ti sta attorno, che ha il compito di darti fiducia, valorizzarti, caricarti. Punto di vista tecnico e mentale. Il team, insomma, è la chiave per salire sul podio.
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