“Benvenuti all’Olimpiade di Tokyo”. Il messaggio appare beffardo per chi, al suo arrivo in Giappone, deve passare ben 12 (dodici) ore in aeroporto prima di essere autorizzato, ma con riserva, a superare il controllo passaporti e andare in albergo. Concludo la prima parte del mio diario olimpico, quella relativa alla preparazione, alla partenza e all’arrivo. Poi si passerà ai giorni dei Giochi veri e propri.
Riparto quindi dalla falsa speranza con cui avevo chiuso la seconda puntata del diario: tutti i documenti a posto, test anticovid effettuati, procedure rispettate, aspetto soltanto l’approvazione dell’Activity plan, il Programma di gare cui voglio assistere, degli impianti in cui devo andare e così via. Gli organizzatori hanno fatto sapere al Coni di tranquillizzare i giornalisti italiani: possono partire anche se il Piano non è stato ancora approvato, all’arrivo a Tokyo troveranno tutto in regola. Le ultime parole famose!
Cerco di farla il più breve possibile, ma è davvero una sequenza incredibile e assurda di una corsa a ostacoli sempre più alti. Dopo l’atterraggio all’aeroporto di Haneda, il più vicino a Tokyo, dobbiamo restare seduti in aereo, mentre i passeggeri “normali”, non legati all’Olimpiade, scendono. Ci consegnano un modulo “di quarantena”, lo compiliamo e lo ritirano. Dopo mezzora siamo autorizzati a scendere. Arriviamo alla prima fermata: controllano se abbiamo sul telefono l’app Ocha, quella che serve per comunicare ogni giorno i dati sulla nostra salute (temperatura, eventuali sintomi) e per essere tracciati. Scopro che il mio Activity plan, nonostante le promesse degli organizzatori e del Governo giapponese, non è stato ancora approvato, Quindi, il mio Ocha non funziona, apre solo la prima pagina. Perciò, mi fermano.
Alcune ragazze gentilissime riescono a far funzionare il mio Ocha anche senza l’approvazione dell’Activity plan, ci mettono 3 ore. Questo però serve solo a sbloccare parzialmente la situazione. Cinque metri dopo la prima fermata, un addetto ai controlli fotografa il mio accredito e spedisce la foto all’ufficio in cui deve essere approvato l’Activity plan. Da lì deve arrivare l’approvazione e il permesso per farmi passare. Chiedo all’addetto quanto tempo devo aspettare. La risposta: almeno 2 ore! Vabbè, aspetto. Dopo 3 ore, nessuna notizia. Comunico al Coni che la mia situazione sta diventando delicata. Protesto con l’addetto e chiedo cosa sta succedendo. Lui telefona all’ufficio in questione, ci parla per qualche minuto, poi chiude. E qui comincia il teatro dell’assurdo.
Chiedo all’addetto cosa gli hanno detto al telefono. E lui: “Non posso dirtelo”. Ma sta scherzando? Gli chiedo perché non può dirmelo. “Non posso dirti nemmeno questo”. Siamo alle barzellette. E chi può dirmelo? “Ho chiamato un mio superiore, adesso arriva e lui può dirtelo”. Arriva una ragazza, il suo superiore, che è gentilissima, ma mi dice che non posso passare. Perché? Non lo sa nemmeno lei. Ma almeno tenta di fare qualcos’altro, farmi parlare direttamente con l’ufficio che deve approvare l’Activity plan. Vengo a sapere, poi, che anche il Coni è riuscito a contattare l’ufficio e a spingere per risolvere la mia situazione. Intanto, chiedo cosa succede se l’Activity plan non viene approvato. “Devi rimanere in aeroporto”. Qui, seduto su una sedia? “Sì”. Tutta la notte? “Sì”. Complimenti. Ma finalmente arriva la telefonata dall’ufficio dell’Activity plan. E’ una dirigente, molto gentile, che mi spiega: “Per favore, deve firmare una dichiarazione in cui accetta di stare in quarantena, senza uscire dall’albergo, per 14 giorni. Altrimenti deve tornare in Italia immediatamente”.
Sembra un film di Totò. Chiedo se stanno scherzando. Mi dicono di no. La dirigente gentile, però, aggiunge: “Per favore, firmi, è solo una questione di forma, sono costretta a farglielo fare, ma le assicuro che domani riesco a sbloccare la sua situazione e lei sarà libero di uscire dall’albergo”. Decido di fidarmi. Fra l’altro, dovrei tornarmene in Italia se non firmo. Siamo arrivati a 8 ore di blocco in quella seconda fermata del mio viaggio in aeroporto. Firmo il documento e mi fanno passare. Faccio un tampone salivare, poi vado al controllo passaporti, poi aspetto il risultato del tampone. Intanto, mi arriva una mail dalla compagnia aerea del mio volo: “I suoi bagagli non sono stati ritirati, li abbiamo chiusi in ufficio, può ritirarli domani mattina”. Altra bella notizia. Arriva il risultato del tampone: negativo. Posso passare. Supero l’ultimo controllo, ma mi dicono che devo aspettare: gli addetti del Comitato organizzatore dicono che mi fanno avere i bagagli subito. Li ringrazio, ma passa un’altra ora. Finalmente mi danno i bagagli. Sono trascorse 12 ore dal momento in cui sono atterrato. Finiti i guai? Macché. Devo andare in albergo. I volontari che si occupano dei trasporti non hanno idea di come assistermi, mi dicono che devo aspettare un’altra ora per un bus che mi porterà in città e poi si vedrà, non lo sanno nemmeno loro. Dico che gli organizzatori mi avevano assicurato un taxi all’aeroporto per portarmi in albergo, mi avevano addirittura chiesto quanti bagagli avrei portato con me e io gliel’avevo comunicato. Gli addetti ai trasporti, però, guardano il mio accredito e dicono che non sono autorizzato a prendere il taxi. Non si tratta di questione legata al covid, semplicemente secondo loro (che sbagliano) il mio accredito è di seconda categoria e non mi permette di prendere il taxi. Il giorno dopo al Main Press Center mi confermeranno che posso prendere i taxi, ma ormai è andata. Salgo sul bus, dopo un’altra ora. Altri 45 minuti per arrivare in un Centro di distribuzione degli accreditati: ci sono i taxi, salgo e vado in albergo, ci arrivo dopo altri 15 minuti, alle 2 e mezza di mattina. Sono passate 14 ore da quando sono atterrato.
Qualche giorno dopo, leggerò qua e là su siti vari mirabolanti avventure di giornalisti arrivati senza problemi a Tokyo e usciti dall’aeroporto dopo appena un’ora e mezza. Chiarisco: non metto in dubbio che sia vero, sicuramente è andata così. Quello che dico è che per un giornalista riuscito ad avere l’Activity plan approvato già dalla partenza in Italia, tutte le App funzionanti sul telefono e per il quale è filato tutto liscio, ce ne sono altri 9 rimasti chiusi in aeroporto per almeno 5 ore e altri ancora che sono poi stati reclusi in albergo per ulteriori 2-3 giorni, senza nemmeno poter uscire per comprare qualcosa da mangiare. Inoltre, nei 3 giorni successivi all’arrivo è obbligatorio eseguire un test salivare anticovid, che non si può fare se si è bloccati in albergo. E’ vero che, in teoria, si potrebbe chiedere il test facendo portare in albergo le provette per il prelievo, ma il telefono cui bisogna rivolgersi per chiedere di usufruire di questo servizio, così da non essere dichiarati inadempienti al test, cosa che prevede anche l’espulsione dal Giappone, o di ricominciare a contare i 3 giorni dal momento in cui si viene dichiarati “liberi”, non funziona, nessuno risponde! Quindi, quando si raccontano le esperienze di questo genere, è bene precisare le percentuali di quelli cui è andata bene e di quelli cui è andata male, altrimenti la situazione non viene resa nella sua realtà. Per l’Olimpiade di Tokyo il 95%, almeno, dei giornalisti ha avuto seri problemi ed è rimasto bloccato in aeroporto per ore e ore.
La conclusione della mia esperienza arriva il giorno dopo. Nel pomeriggio, la dirigente mi comunica che il mio Activity plan è stato approvato, sono libero, vado al Main Press Center, faccio il primo test salivare, comincio a essere un vero giornalista accreditato all’Olimpiade. Ma la cosiddetta “accoglienza” del Giappone olimpico è stata terribile. Da questo momento in poi vedrò se i primi problemi sono stati solo un intoppo dovuto all’esigenza di oliare il meccanismo organizzativo o se mi devo preparare a nuove “odissee”. La seconda che hai detto.
Dal nostro inviato Gennaro Bozza
(3 – continua)