Il biglietto per entrare nello stadio e il biglietto per utilizzare i mezzi pubblici: ecco i due grandi sogni dei giornalisti all’Olimpiade di Tokyo. Dopo le vicissitudini per entrare in Giappone, descritte nelle prime tre puntate di questo diario dei Giochi, si entra nel vivo, sportivo e no. E qui comincia un’altra serie di problemi, ai quali però si accompagnano anche belle immagini di imprese degli atleti, non obbligatoriamente e strettamente legate alle medaglie, e sensazioni meno belle suscitate da personaggi, se possiamo definirli così, “non da spirito olimpico”.
TRASPORTI AD HANDICAP
Punto fondamentale: a Tokyo non ci sono le “corsie olimpiche” nelle strade, come avvenuto nei precedenti Giochi. Persino ad Atene, che qualche problema di viabilità ce l’ha, la corsia olimpica per i bus e i mezzi ufficiali era stata prevista. Qui, niente. I bus per il trasporto degli atleti e di qualunque altro accreditato sono impelagati nel traffico normale, che normale non è. Certo, nelle strette strade di Tokyo considerare una corsia olimpica non è facile, ma probabilmente a indurre gli organizzatori e il Governo a non prevederla è stata la quasi certezza che i cittadini contrari a questa Olimpiade (e sono parecchi), infuriati, sarebbero andati con i martelli pneumatici a frantumare l’asfalto di quella corsia privilegiata. Risultato: trasporti da incubo, non determinati però solo dai problemi del traffico.
E qui entra in ballo un modo di fare che non può essere liquidato semplicemente come “diversa mentalità”. Il centro di smistamento è un piazzale enorme dove è possibile mettere anche un centinaio di bus. Ma la via per entrare e uscire è strettissima, tanto che non può essere percorsa contemporaneamente da due bus in direzione opposta, ci sono gli addetti al traffico che bloccano i bus alternativamente e danno il via libera. L’ingresso e l’uscita non sono strozzature obbligate, potevano anche essere più larghi, ma chi ha ideato questo centro di smistamento ha volutamente previsto questi spazi stretti. Per la verità, lo spazio ci sarebbe, sia pur minimo, ma i giapponesi non vogliono rischiare, quindi si verifica questa situazione comica all’entrata-uscita: una fila di 10 e anche 15 bus in entrata, fermi, mentre altri 10-15 bus stanno uscendo. E viceversa. E i giapponesi, con tutta calma, dicono che è normale aspettare una decina di minuti perché finalmente arrivi il proprio turno. E quei minuti persi provocano in molti casi il danno di arrivare in ritardo per la coincidenza con altri bus. Così, bisogna aspettare anche un’ora per il bus successivo e si arriva in ritardo alle gare. Splendido.
Ma il vero esempio del modo di pensare giapponese è dato dal tragitto del bus che va dal centro smistamento al Main Press Center. Si esce dal piazzale, sulla sinistra c’è una strada di un centinaio di metri fino a un incrocio, il bus però va dritto, arriva a incrociare una strada e svolta a sinistra, percorre quasi un chilometro e, sorpresa, incrocia la strada di un centinaio di metri intravista prima, quindi prosegue per la destinazione finale. In conclusione: il bus potrebbe girare subito a sinistra, in una strada con due corsie a doppio senso di marcia, senza divieto di circolazione, tant’è vero che viene percorsa da altri bus non diretti al Main Press Center, ma va dritto e fa 900 metri in più per chissà quale schiribizzo della mente che ha inventato tutto ciò. E qui siamo ben oltre le comiche.L
GIORNALISTI, TRASPORTI, COVID E BIGLIETTI
Se il problema dei trasporti può anche essere affrontato puntando sul lato comico, non altrettanto si può dire delle questioni legate al Covid. Premessa: come già detto nelle precedenti puntate, per molte gare “ad alta richiesta”, l’accredito da giornalista non basta per entrare, ci vuole un biglietto che viene distribuito dai Comitati olimpici nazionali ai giornalisti del proprio Paese. Quindi, moltissimi giornalisti restano fuori. Ma questo sta accadendo ormai da molte edizioni dei Giochi e non è legato al Covid. A Tokyo si aggiunge il problema della pandemia, quindi tutte le gare hanno un numero di posti limitato per i giornalisti. Attraverso un apposito sistema, via internet, il giornalista fa richiesta, in questo caso direttamente al Comitato organizzatore e non al proprio Comitato olimpico, poi aspetta la risposta. E anche qui molti giornalisti restano fuori. L’assurdità è che gli stadi sono vuoti, il pubblico non è stato ammesso, perciò i posti per i giornalisti sarebbero illimitati, ma il Cio e gli organizzatori insistono e, anzi, limitano ancora di più i posti per la stampa, con la scusa del Covid. Perché parlo di “scusa”? Perché non c’è alcun motivo di limitare l’ingresso dei giornalisti, i posti liberi garantirebbero la “distanza sociale” necessaria per evitare il rischio di contagio. Ma evidentemente il Cio sente il bisogno di esercitare questo tipo di pressione per far capire che l’ingresso non è un diritto concesso all’informazione ma un “favore” fatto ai giornalisti.
Il discorso meriterebbe un corposo approfondimento, ma mi limito alla grande contraddizione del Cio e degli organizzatori a proposito del Covid in questa Olimpiade. I posti in tribuna stampa sono limitati per garantire la distanza sociale. Ma dovrebbe essere garantita “ovunque”, se è davvero questo il problema. E cosa succede, invece, sui bus per i giornalisti. Nella foto allegata si può vedere in che condizioni si viaggia negli shuttle bus della stampa: ammassati a pochi centimetri l’uno dall’altro. E il Cio e gli organizzatori non si preoccupano di questa situazione? A loro basta limitare i posti in tribuna stampa per sentirsi a posto con la coscienza. Così, si arriva al paradosso più evidente: i biglietti contingentati per le gare di atletica. Si svolgono nello stesso stadio, grandissimo, della cerimonia inaugurale. Ci sarebbero posti per tutti i circa seimila giornalisti accreditati, anche con una distanza di tre metri (per abbondare) l’uno dall’altro, ma anche in questo caso il numero di posti è stato ridotto anche rispetto a Olimpiadi precedenti. In base a quale motivazione? E’ la semplice conferma che il Covid qui non c’entra una beneamata mazza.
Conclusione sui trasporti: quasi nessuno degli addetti ai trasporti (dagli autisti a chi dà assistenza su orari e tragitti dei bus) parla inglese. Che volete che sia.
MASCHERINE ANTICOVID
Chiunque sia stato in Giappone prima di questa Olimpiade, di recente o negli anni passati, fino ad arrivare a 20-30 anni fa, ha potuto notare una cosa evidente: tantissimi giapponesi indossavano la mascherina, per strada, nei luoghi chiusi, ovunque. Loro stessi spiegavano che era una precauzione per la cattiva qualità dell’aria e comunque, al chiuso, per eventuali germi. Per molti occidentali questo modo di fare appariva un po’ esagerato, ma in ogni caso ognuno ha diritto a comportarsi come vuole, specialmente quando in ballo c’è la salute personale. Quello che non si capisce è come mai un popolo che ha sempre mostrato una preoccupazione altissima per la salute, tanto da usare le mascherine nella vita normale anche quando non c’era alcun timore di contagi o pandemie, un atteggiamento mai registrato in alcuna altra parte del mondo, quando arriva una pandemia vera, pericolosa per la vita, ebbene questo stesso popolo rifiuta la vaccinazione. Alla vigilia dell’Olimpiade risultava vaccinato solo il 20% della popolazione, un dato assurdo che mette ancor più in evidenza le contraddizioni dei giapponesi: quando non c’è un rischio vero e pesante, fanno i maestrini facendo vedere al mondo che loro sì sono saggi e accorti; quando il pericolo è concreto, reale, mostrano il volto di chi pensa di essere più intelligente degli altri e li irride perché hanno paura di qualcosa che non esiste. Già, proprio come quelli che da tanti anni si mettono la mascherina per proteggersi dalla qualità dell’aria!
NOBILTA’ DELL’ULTIMO TEDOFORO
La curiosità più grande nella cerimonia inaugurale delle Olimpiadi è sempre la stessa: chi sarà l’ultimo tedoforo, quello che porterà la fiamma nel tripode olimpico. Alla vigilia, i candidati, ovviamente non ufficiali, sono molti, fra plurivincitori di medaglie d’oro olimpiche e personaggi famosi dello sport giapponese. Alla fine, la scelta va sulla tennista Naomi Osaka, prima giapponese a vincere una prova del Grande Slam (poi è arrivata a 4). Non è condivisa dagli stessi giapponesi e nello stadio, dove non ci sono spettatori, la freddezza dei giornalisti è evidente, visto che Osaka li aveva apertamente accusati di disturbarla con domande inopportune nelle conferenze stampa, uno dei motivi per cui si era ritirata dagli Open di Francia e aveva saltato Wimbledon. Ma anche le reazioni del giorno dopo, fra il popolo giapponese, non sono molto favorevoli. Fra l’altro, il fatto che Osaka torni a giocare in questa occasione è visto solo come un obbligo da parte sua, altrimenti non le sarebbe stato concesso di essere ultima tedofora. E questo viene confermato ancora di più dalla sconfitta con la Vondrousova al terzo turno, con Osaka che si mostra svogliata e fuori forma. Insomma, quell’accensione del tripode, agli occhi degli stessi giapponesi, è vista solo come un’occasione di visibilità, per soddisfare gli sponsor e tenere alto il conto in banca. Nei commenti della gente comune, il giorno dopo, c’è un rimpianto particolare, non legato a campioni del passato o attuali, pur tenuti in gran considerazione, ma a una atleta speciale: Rikako Ikee, la nuotatrice che è guarita dalla leucemia e si è qualificata ai Giochi. Sarebbe stato un bel segnale, come lo fu, sia pure per motivi diversi ma con la stessa nobiltà di intenti, quello dei Giochi del 1964, quando ad accendere il tripode fu Yoshinori Sakai, nato a Hiroshima un’ora dopo lo scoppio della bomba atomica il 6 agosto 1945.
E in tema di nobiltà, sportiva e no, è importante ricordare l’ultimo tedoforo di Atlanta 1996. In una Olimpiade caratterizzata dalla corruzione economica, a partire dalla scandalosa assegnazione a danno di Atene, che avrebbe dovuto riavere i Giochi a 100 anni dalla prima edizione, per finire alle auto usate nella cerimonia inaugurale con il nome della marca ben in vista con scritte giganti, l’unico raggio di luce fu Muhammad Ali, che, pur tremante per la malattia che lo stava distruggendo, ebbe la forza di reggere la fiaccola e accendere il tripode. Gli sponsor, quindi, si sono imposti nella cerimonia inaugurale di Tokyo 2020, facendo in pratica il bis di Pechino 2008. In quella Olimpiade, praticamente perfetta dal punto di vista organizzativo, la pecca più grande fu proprio la scelta dell’ultimo tedoforo: Li Ning, ginnasta vincitore di 3 ori a Los Angeles 1984, nell’edizione boicottata dai Paesi del fronte sovietico, dopo che quelli occidentali avevano fatto lo stesso quattro anni prima a Mosca. Così, senza i ginnasti più forti, Li Ning aveva vinto e di lì aveva costruito una carriera di imprenditore creando una azienda di abbigliamento col suo nome. Quell’azienda ebbe un momento di crisi proprio mentre si avvicinavano i Giochi di Pechino ed ecco che arrivò un “aiuto” sotto forma della più grande visibilità pubblicitaria come ultimo tedoforo di una Olimpiade storica. Le decisioni condizionate dal denaro, come si vede, non finiscono mai.
Dal nostro inviato Gennaro Bozza
(4 – continua)