L’ultima puntata del diario giapponese arriva con qualche giorno di ritardo, dovuto ai tanti problemi da risolvere nei giorni conclusivi dei Giochi e alle pratiche burocratiche da portare a termine per poter ripartire. E già, perché partire per il Giappone ha comportato una serie infinita di esami medici, tamponi anticovid e attestati vari, ma è stato niente in confronto a quello che c’era da fare per tornare in Italia, tenendo conto che fino all’ultimo giorno abbiamo dovuto fare i tamponi salivari, ottenere i certificati necessari per superare il check-in all’aeroporto e poi risolvere tutti gli altri problemi burocratici. Giusto per dare un’idea della confusione che imperava negli ultimi giorni, nemmeno l’ambasciata italiana cui ci siamo rivolti per chiedere un paio di spiegazioni su documenti vari, pur nella gentilezza che ha dimostrato verso chiunque le si sia rivolto, ha dato indicazioni precise su cosa fosse necessario per ripartire. Alla fine, comunque, ce l’abbiamo fatta. Perciò, ecco le considerazioni finali sull’esperienza giapponese, cui seguiranno, subito dopo, gli articoli di analisi sugli aspetti tecnici e sui risultati, oltre che sull’eterna questione del doping, sulla quale posso preannunciare qualcos’altro sulla presunta eroina Biles, di certo non sulla stessa lunghezza d’onda degli altri mezzi d’informazione.
RIMBORSI RITARDATI
Il primo argomento riguarda il modo quantomeno originale dei giapponesi di considerare il sistema di rimborso delle somme depositate a garanzia dei pagamenti. Nel caso specifico, mi riferisco alle schede telefoniche giapponesi, necessarie per i contatti sul posto. Il deposito a garanzia della scheda pagata a consumo (quindi alla fine dell’Olimpiade) era di 93.000 yen (lo scrivo a lettere: NOVANTATREMILA), vale a dire quasi 800 euro secondo il cambio in quel momento, poi scesi a oltre 700, una cifra spropositata. E questo nel desk ufficiale del Comitato organizzatore, all’interno del Main Press Center. Al momento dell’acquisto, viene detto che la somma sarà rimborsata al momento della riconsegna della scheda, detratta la spesa per il traffico telefonico effettuato. Da notare: si può pagare solo con la carta Visa, sponsor dei Giochi. Vabbé, questi 700 euro li riavremo alla fine. E invece, ecco la sorpresa. Ultimo giorno, andiamo al desk per riconsegnare la scheda e riavere il deposito fra i 700 e gli 800 euro, ma ci viene detto che: la scheda non va riconsegnata perché è valida fino alla fine di agosto, quindi ce la dobbiamo tenere e, secondo i giapponesi, potremmo anche usarla in Italia, figuriamoci, con una spesa abnorme; siccome è valida fino alla fine di agosto, non possono calcolare quanto abbiamo speso, perché potremmo spendere ancora altro, visto che secondo loro saremmo così scemi da usare quella scheda in Italia e spendere una cifra assurda; e allora, ecco il colpo di teatro, il rimborso del deposito verrà calcolato solo alla fine di
agosto, dopo aver detratto la cifra delle telefonate effettuate, degli sms e del traffico internet. Quindi, avremo il rimborso a inizio settembre? Nuovo e più grande colpo di scena: no, siccome ci vuole tempo per esaminare il traffico delle migliaia di schede vendute, il rimborso sarà effettuato a… FINE NOVEMBRE! Quindi, sganciamo quasi 800 euro a metà luglio, che ci vengono addebitati sulla carta di credito Visa, e li riabbiamo (tolta la spesa della scheda che nel mio caso ammonta a 20, diconsi venti, euro) a fine novembre. E allora, facciamo i conti prudenti; diciamo che su seimila accreditati dei mezzi di informazione solo la metà ha preso la scheda, i soldi incassati dall’apposito ufficio a garanzia del pagamento delle schede telefoniche sono circa 2 milioni e 400mila euro, che rimangono in banca, nella loro banca, per quattro mesi e mezzo!
Dico solo una cosa: se un’operazione del genere fosse stata fatta qui in Italia, la frase più gentile che ci avrebbero rivolto sarebbe stata “italiani ladri e mafiosi”. Ma l’hanno fatta in Giappone, quindi è una rigorosa e onesta operazione bancaria alla luce del Sol Levante.
TAXI E RICEVUTE
Mi aspetto l’obiezione sui tanti esempi che ho portato, in questo diario, su tutto quello che non andava sia nell’organizzazione dell’Olimpiade, sia nel Giappone in generale. Va tutto male in questo Paese che è invece rinomato per un modo di fare che aspira alla perfezione? Ovviamente non va tutto male, ma una fatale combinazione del periodo particolare, del modo di ragionare “poco elastico”, per usare un eufemismo, e dei vincoli creati dal Comitato Olimpico Internazionale, dal Governo giapponese e dal Comitato organizzatore locale ha esasperato le cose che, in un periodo con minori tensioni, potrebbero essere sopportate da chi è abituato a un differente modo di vivere. Una cosa, però, posso dirla a favore dei giapponesi e riguarda i taxi: tutti, ma proprio tutti, hanno la strumentazione per pagare con la carta di credito, e tutti, ma proprio tutti, hanno la macchina che stampa in automatico le ricevute. Imbrogli non se ne possono fare. Ecco, questa è una lezione che dovrebbe essere fatta propria dai tassisti italiani.
COSTUMI DA RADIARE E DA AMMIRARE
Al di là degli aspetti tecnici e agonistici, una cura particolare va dedicata al modo di apparire degli atleti, soprattutto quando sono loro stessi a mettersi in evidenza con divise da gara, tute e costumi che possono rivelare eleganza o diventare papocchi inenarrabili. Preferisco cominciare dagli orrori, per tenerci la bellezza alla fine. E uno dei due costumi dei nuotatori statunitensi conquista, a mio parere, la palma di “più brutto” di tutta la storia delle Olimpiadi, è quello con la bandiera a stelle e strisce che, soprattutto nelle donne, visto che si sviluppa per quasi tutto il corpo e acquista così rilievo enorme, è di un pacchiano davvero disturbante. Un costume da radiazione. Al contrario, la tuta che gli stessi nuotatori statunitensi indossano sopra il costume, completamente bianca, potrebbe apparire fine, senonché l’impressione che se ne ricava è che, aggiungendo un cappuccio dello stesso bianco, in piscina si aggirino i Carabinieri del Ris. Insomma, gli Usa a ripetizione di colori e di eleganza.
Di bello, invece, c’è il costume intero che le tedesche della ginnastica artistica hanno voluto indossare in polemica con l’abitudine di usare il body. La bellezza, però, si limita al costume in sé per sé, non alla motivazione. Le tedesche hanno detto di aver fatto questa scelta per evitare la “sessualizzazione” della ginnastica, perché i body mostrano le gambe e, talvolta, quando i movimenti sono estremi, anche qualcosa di più. Io credo sia giusto invocare un rispetto, da parte di chi guarda, per le atlete che gareggiano con costumi che magari possono mostrare una parte un po’ più grande di corpo che dovrebbe restare coperta. Tanto per capirci, può accadere anche in altri sport in cui non si usa il body. Quello che non credo sia giusto è abbinare il body alla sessualizzazione. Lo è quando, come nel beach volley, suprema vergogna, si prescrive per le donne un bikini dalle misure ridotte (addirittura si arriva a fissare misure “massime” oltre le quali non si può andare, praticamente un invito ai maniaci sessuali a guardare questo sport al femminile), tant’è che un caso simile di contestazione alla regola del “costume con limite di massimo di misure” si è verificato poco prima dei Giochi di Tokyo agli Europei di beach handball, in Bulgaria, con le norvegesi che hanno protestato, giustamente, per questa imposizione di indossare il bikini mettendosi pantaloncini simili a quelli dei maschi, venendo poi multate, vergogna ancor più suprema per la Federazione di pallamano. Tornando alla pallavolo, vale la pena ricordare le fisime dell’ex presidente Acosta che, anni fa, voleva imporre un body striminzito a tutte le giocatrici di pallavolo, sostenendo che questo avrebbe fatto riconoscere immediatamente lo sport. Fu deriso da Gianni Mura che fece notare come, per sapere che stava guardando una gara di pallavolo, gli bastava vedere la rete al centro del campo! Ma, tornando alla ginnastica e alla sessualizzazione, alle tedesche bisognerebbe far notare che la tuta aderente, agli occhi di chi è attratto sessualmente dalle donne (non ne faccio una questione di genere, intendo chiunque sia attratto sessualmente dalle donne), fa apparire più sensuale chi la indossa. Si avrebbe, così, l’effetto contrario a quello che le tedesche vogliono evitare. E non sto dicendo che non sia giusto volerlo evitare, dico che le ginnaste tedesche sbagliano a interpretare il desiderio sessuale. Faccio un esempio pratico, preso dalla ginnastica ritmica. Guardate la squadra dell’Ucraina, che in uno dei due esercizi del programma ha il body, come tutte le squadre, ma nell’altro indossa una tuta aderente. La sensazione di attrazione sessuale, per me etero, è nettamente più forte in questa seconda versione ed è praticamente nulla in quella col body, in cui vedo solo l’atto sportivo e agonistico. Dopodiché, a prescindere da chi guarda, ogni atleta ha diritto a indossare il costume nel quale si sente più a suo agio, più al sicuro da sguardi non interessati allo sport.
VARIE ED EVENTUALI
Concludo con una serie di piccole notazioni.
RUSSIA L’inno russo è stato sostituito dalle note iniziali del meraviglioso Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in Si bemolle minore opera 23 di Tchajkovsky. La suprema bellezza di questa musica non cancella però la suprema stupidità di chi crede che basti cancellare un inno e il nome di una nazione (Roc per Russian Olympic Committee, invece di Russia) per dare un segno della lotta al doping. Gli atleti russi che partecipano all’Olimpiade sono riconosciuti estranei al sistema che ha fatto del doping un’arma. Meritano di essere riconosciuti anche col nome della loro Patria e con il loro Inno.
SPEAKER Nel nuoto non cambia la mania degli speaker di trattare i nomi degli atleti di tutto il mondo come se fossero di lingua inglese. Ricordo loro, ancora una volta, che questa lingua si deve mettere in coda alla fila delle pronunce delle parole e dei nomi di tutta la terra, essendo arrivata per ultima. Praticamente, chiedere ai delegati di ogni nazione la pronuncia dei nomi dei loro atleti, è una semplice questione di rispetto. Come al solito, invece, trionfa l’arroganza di chi si crede padrone del mondo.
TRIBUNE STAMPA Gli organizzatori si vantano di aver fatto entrare nelle tribune stampa quasi tutti i giornalisti che ne hanno fatto richiesta. Come si ricorderà, nonostante gli stadi vuoti per mancanza di pubblico, erano stati limitati i posti per i giornalisti, che dovevano fare richiesta per entrare, e quindi lavorare, e aspettare la grazia degli organizzatori. Allora, faccio notare che non basta dire di aver fatto entrare quasi tutti i giornalisti. Bisogna dire di fornire i dati precisi: quante richieste sono state fatte per ogni gara e quante sono state soddisfatte. A chiacchiere stiamo a zero.
PECHINO O CARA Carlo Mornati, segretario generale del Coni e capodelegazione dell’Italia a Tokyo, ha detto che “con questo protocollo ai Giochi Invernali di Pechino non ci va nessuno”. Il protocollo, come lui stesso ha chiarito, è lo stesso di Tokyo. Solo che dalle sue parole si è inteso che a Pechino i 14 giorni iniziali di quarantena, appena giunti in Cina, siano “integrali”, vale a dire che bisogna stare 14 giorni chiusi e poi si può uscire per le gare. Il che cozza contro l’affermazione secondo la quale il protocollo è lo stesso di Tokyo. La verità è che il protocollo è davvero lo stesso, quindi niente dovrebbe cambiare. Se si afferma che, dopo una esperienza come quella di Tokyo, ripeterla sarebbe insopportabile, è un conto e si ha diritto a dirlo. Se si vuol dire che a Pechino si starà come in prigione, non è così. La situazione, tanto per essere precisi, è questa. A Tokyo, nei primi 14 giorni, si poteva andare solo in luoghi precisi indicati prima di arrivare. I giornalisti, ad esempio, hanno indicato principalmente gli impianti, di gara e di allenamento, Casa Italia. Non si potevano prendere mezzi pubblici. Dopo 14 giorni, si era liberi di andare dovunque e con qualsiasi mezzo. A Pechino sarà lo stesso. Cos’è che ha di diverso la Cina? Ha che adesso, non durante i Giochi, la quarantena per chi entra in Cina è di 28 giorni, 14 in hotel anticovid e poi 14 a casa per chi ce l’ha, altrimenti anche quelli in hotel. La zona di Pechino è chiusa agli stessi pechinesi quando tornano dall’estero. I giornalisti cinesi inviati a Tokyo e residenti a Pechino staranno 28 giorni in quarantena in Cina ma fuori Pechino, prima di poter rientrare a casa. Per l’Olimpiade invernale si rientrerà nelle norme del protocollo utilizzato per quella estiva di Tokyo.
Queste sono le informazioni. Se poi la pandemia dovesse peggiorare, tutto andrebbe rivisto, ma questa è un’altra storia.
Dal nostro inviato Gennaro Bozza
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