Alla premiazione dei 200 stile libero femminili, a Tokyo, si scopre che a consegnare le medaglie è Giovanni Malagò, presidente del Coni e del Circolo Aniene, lo stesso di Federica Pellegrini, della quale Malagò è grande ammiratore e sponsor. Considerato che la decisione su chi deve effettuare le premiazioni viene presa con un po’ di anticipo, è facile immaginare che la speranza di Malagò fosse quella di avere proprio la Pellegrini sul podio, prima di rendersi conto della sua difficoltà a superare addirittura le batterie, e per questo motivo fosse stata avanzata la sua candidatura a “premiatore”. Niente di male, per carità. Il punto è che questo cozza con la grande celebrazione di Pellegrini unica donna a disputare 5 finali olimpiche nel nuoto, nei 200 metri. L’ingresso in finale è stato trattato come un trionfo, come se questo fosse sempre stato il vero obbiettivo, come se la conquista di una medaglia fosse stata esclusa in partenza. Eppure, basta rileggere i giornali nella lunga marcia di avvicinamento all’Olimpiade di Tokyo per accorgersi che si puntava chiaramente a una medaglia. Poi, una volta arrivati al momento decisivo, tutti hanno dovuto ammettere che quel traguardo era diventato impossibile. Così quello che viene fuori, alla fine, è solo un trionfo immaginario.
Parto proprio da questo risultato per aprire la serie di analisi sui vari sport ai Giochi di Tokyo perché ha in sé la traccia di quanto accaduto e di come è stato raccontato. Con un occhio anche al doping.
CINQUE OLIMPIADI
L’esaltazione di chi riesce a entrare in finale in una gara in cinque edizioni consecutive dei Giochi è giusta, ma non può essere paragonata a chi, oltre a entrare in finale, magari in “sole” quattro Olimpiadi, vince molti ori e non un solo argento e un solo oro. Federica Pellegrini ha disputato cinque finali dei 200 stile libero con questi risultati: argento ad Atene 2004, oro a Pechino 2008, quinta a Londra 2012, quarta a Rio 2016, settima a Tokyo 2021. Inoltre, due finali nei 400 con altrettanti quinti posti (a Pechino e Londra). Quindi, un oro e un argento, l’ultima medaglia ben 13 anni fa, e scatta la marcia trionfale! Scusate, ma non mi pare una cosa seria. I complimenti vanno sicuramente fatti, perché è la nuotatrice italiana che ha vinto di più nella storia, con i 4 ori mondiali nei 200 e i 2 ori nei 400, ma tutta questa esaltazione appare esagerata se si considera che viene fatta per un risultato finale di modesta caratura tecnica: 15ma su 16 qualificate dalle batterie alle semifinali, settima su 8 qualificate dalle semifinali alla finale, settima in finale. Infine, quando si vuole inquadrare un campione moderno, uomo o donna che sia, nella storia del nuoto, i riferimenti non possono essere assoluti e non possono essere gli stessi. Quando si parla del numero di medaglie per candidare qualcuno al ruolo di “più forte della storia” si deve anche considerare quante possibilità in meno avevano le campionesse che potevano aspirare solo a Olimpiadi, ogni 4 anni, ed Europei. La differenza è sostanziale. Ed erano più invogliate ad abbandonare dopo una o al massimo due Olimpiadi, perché non c’erano le tappe intermedie dei Mondiali a indurle a proseguire. Fissare un solo traguardo lontano 4 anni non è semplice. I Mondiali scattarono nel 1973 e nei primi venti anni non avevano nemmeno una cadenza fissa, come si può capire guardando le edizioni fino al 1998: Belgrado 1973, Cali 1975, Berlino Ovest 1978, Guayaquil 1982, Madrid 1986, Perth 1991, Roma 1994, Perth 1998. Solo dal 2001, a Fukuoka, si cominciò con i Mondiali ogni due anni. Quindi, erano Mondiali “ballerini” con addirittura un intervallo di 5 anni fra Madrid e Perth. Anche i “numeri” delle medaglie, come si può capire, non sono riferimenti assoluti in una situazione di questo genere. Perciò, molte “patenti” di “più forti” regalate senza tener conto di questa disparità dovrebbero essere ritirate senza alcuna discussione.
Tornando all’interpretazione data alla prova della Pellegrini, il cambiamento da parte dei mezzi di informazione è avvenuto lentamente, perché di fronte ai tempi sui 200 con cui lei si avvicinava a Tokyo si è preferito sperare l’impossibile, e quindi pronosticare una medaglia, anziché vedere cosa stava realmente succedendo, per poi fare una drastica marcia indietro dopo le batterie, quando si è visto che Federica non ne aveva più. Eppure, la situazione era chiara ben prima dei Giochi. Dopo la grande vittoria ai Mondiali di Gwangju nel 2019, con 1’54”22 in finale, la Pellegrini non era più riuscita a ottenere tempi che potessero proiettarla verso una medaglia: 1’57”58 nel 2020, 1’56”23 nel 2021 i suoi migliori. Sembrava di essere tornati indietro al 2012 quando, da campionessa mondiale in carica su 200 e 400, si presentò ai Giochi di Londra col quinto tempo stagionale in entrambe le gare e finì quinta in entrambe! Chi allora fece notare che qualcosa non andava nella preparazione a quella Olimpiade fu messo a tacere come gufo malefico.
Così, nel caso di Tokyo, una rapida visione dei tempi mondiali verso i Giochi, nel 2020 e 2021, faceva chiaramente intendere qual era la reale situazione: Titmus (Australia), oro nei 200, si presentava con 1’53”09 (a soli 11 centesimi dal record mondiale della stessa Pellegrini) e anche 1’55”43 e 1’55”72 nel 2021; Haughey (Hong Kong), argento, 1’55”21; Yang Junxuan (Cina), quarta, 1’54”98; Ledecky (Usa), quinta, 1’54”40 e 1’55”11 nel 2021, 1’54”59 nel 2020; Wilson (Australia), ottava, 1’55”68, la sola che Pellegrini è riuscita a sopravanzare pur avendo un tempo di entrata superiore; con Seemanova (R. Ceka), sesta, 1’56”27 e Oleksiak (Canada), bronzo, 1’57”07, uniche a presentarsi con tempi di entrata superiori a quello della Pellegrini, ma che si sono migliorate nettamente. Da considerare poi, fra 2020 e 2021, atlete come McIntosh (Canada) 1’56”19 e Anderson (Gbr) 1’56”06, eliminate in semifinale, ma che avrebbero potuto con i loro tempi migliori superare Pellegrini per qualificarsi alla finale. Federica a Tokyo ha ottenuto 1’57”33 nelle batterie, 1’56”44 in semifinale, 1’55”91 in finale, quest’ultimo il suo miglior tempo negli ultimi due anni, dopo la vittoria a Gwangju.
La situazione, quindi, era chiarissima, la medaglia era impossibile, ma fino alla disputa delle batterie si è andati avanti con il miraggio del podio, per poi far finta di non averlo mai avuto come obbiettivo.
MIGLIORE AZZURRA DI SEMPRE
Con la Pellegrini che dà l’addio alle gare (a parte l’ultima che disputerà a Napoli) è giusto, secondo me, risistemare nella storia del nuoto la figura di Novella Calligaris. Se la Pellegrini è considerata, giustamente, la più forte azzurra di sempre, visto il numero di vittorie in tutte le grandi manifestazioni, un giudizio a parte dovrebbe essere fatto sulla nuotatrice tecnicamente migliore di sempre. E qui la Calligaris può davvero essere messa sul gradino più alto di questo podio ideale. Bisogna ricordare, infatti, due cose: in quali gare e con quali risultati si è cimentata, quali avversarie aveva di fronte. Esaminando questi aspetti vengono alla luce fatti e considerazioni che molti hanno dimenticato. Certo, in quell’epoca la carriera delle nuotatrici, di tutte, era più breve, per tante ragioni, di qui un minor numero di medaglie vinte, ma va anche ricordato che non esistevano ancora i Campionati Mondiali, come ho ricordato prima.
Vediamo allora cosa è riuscita a combinare Novella Calligaris, sia pure in una carriera di soli 7 anni, dal 1968 al 1974. All’Olimpiade del 1972 prende l’argento nei 400 stile libero, dietro l’australiana Shane Gould. E va ricordato che la Gould può essere considerata la più forte di sempre, avendo detenuto nello stesso momento (dal 12 dicembre 1971 all’1 settembre 1972) i record mondiali di tutte le distanze dai 100 ai 1500 e in più anche dei 200 misti. Quindi, Novella cede nei 400 solo a lei. Prende inoltre il bronzo negli 800 stile libero e nei 400 misti. In tutte e tre le gare delle medaglie stabilisce il record europeo. Quindi, non solo gareggia nello stile libero, ma anche nei misti, dimostrando una completezza tecnica superiore a qualunque altra azzurra della storia, anche della Pellegrini che non ha mai affrontato gli 800 e si è cimentata, come stile non libero, solo nel dorso. Per capirsi meglio, consideriamo la struttura fisica della Calligaris, la più piccola e sottile di tutte le sue avversarie e di qualunque nuotatrice attuale, e proviamo a immaginare la sua frazione a rana, lo stile in cui si affermano fisici nettamente più forti muscolarmente, e possiamo capire come i suoi risultati nei misti siano di caratura eccezionale. Consideriamo poi che all’epoca ogni nazione schierava alle Olimpiadi tre atleti nel nuoto, non due come adesso. Perciò, con 3 statunitensi, 3 tedesche est e 3 australiane, come schieramento minimo di avversarie di rilievo, si capisce come ogni gara per la nostra piccola azzurra fosse un Everest da scalare. E infine consideriamo che la Calligaris in quegli anni aveva di fronte la potentissima Germania Est con le tedesche protagoniste del doping di Stato forse più intenso e violento di tutti i tempi e di tutti gli sport. In queste condizioni, Novella vince tre medaglie e stabilisce il record europeo in tutte e tre le gare, superando quindi anche nei tempi le dopate tedesche dell’est.
Alla prima edizione dei Mondiali, l’anno dopo, a Belgrado, poi, fa il capolavoro negli 800 con la medaglia d’oro e il record del mondo, davanti a una statunitense e a una tedesca dell’est, in una edizione in cui la Germania Est fra le donne vince 10 ori su 14 gare. Ma non basta, perché in questi Mondiali la Calligaris prende il bronzo nei 400 stile libero con il record europeo, il bronzo nei 400 misti ed è quarta nei 200 misti, in queste due ultime gare con due tedesche est ai primi posti. Il valore tecnico di questi risultati va ben al di là della conta delle medaglie, a parte il fatto che un oro nei 400 misti ai Mondiali sarebbe stato suo senza l’inganno del doping. Stiamo parlando di una nuotatrice che, come fu messo ben in evidenza in quegli anni, scivolava nell’acqua come nessun’altra e che gareggiava alla pari con atlete dal fisico imponente e muscoloso, non solo le tedesche: lei, alta 1,67, 47 kg, contro le statunitensi Babashoff, 1,78 m per 67 kg, Rothammer, 1,75 m e 65 kg, l’australiana Gould, 1,71 e 60 kg. Fino a 10 centimetri più alte e 20 chili più pesanti le sue avversarie, eppure la Calligaris riusciva a trovare nelle sue doti innate e nelle sue qualità tecniche, affinate da un allenatore come Bubi Dennerlein, la forza decisiva per lottare e vincere. Perciò, se parliamo di un riconoscimento tecnico, non c’è alcuna altra in Italia come lei e poche nel mondo nella storia del nuoto.
LA REGINA SPODESTATA
A Tokyo, nonostante altri due ori e un argento individuali, più un argento in staffetta, la statunitense Katie Ledecky ha dovuto prendere atto che non è più la regina del nuoto. La stessa reazione quasi isterica quando ha vinto l’oro nel 1500, dopo aver perso i 200 e i 400, dimostra come lei stessa si sia resa conto che i tempi del dominio sono finiti e fa vedere quanto le rode. Le rode perché, nel pieno delle sue trionfali cavalcate, aveva addirittura programmato l’attacco ai 100 metri, follia pura sostenuta da qualche sprovveduto giornalista, e non si aspettava una caduta prima di quanto lei avesse previsto. Non dimentichiamo che ha solo 24 anni, un’età che una volta era ritenuta troppo alta per una nuotatrice, ma che nell’era moderna può essere considerata quella della “maturità”, non della “vecchiaia”. I segnali, però, erano già lampanti, a cominciare dai Mondiali 2019 a Gwangju, con la sconfitta nei 400 dalla giovane australiana Titmus e il ritiro nei 200 e 1500, oltre alla vittoria stentata negli 800 sulla Quadarella.
Nei 200 e 400 è una doppia sconfitta bruciante e non è detto che il rimpianto più grande sia sui 400, quando è superata dalla Titmus ai 350 metri e l’arrivo è in volata. La sconfitta peggiore è sicuramente quella nei 200, quando arriva addirittura quinta, a 1”71 dalla vincitrice Titmus e a 0”51 dal bronzo della canadese Oleksiak, ma è quella che fa più male in prospettiva perché fa capire che la Ledecky ha ormai perso quella freschezza atletica che le permetteva di andare forte anche su distanze per le quali il suo fisico non appare il più adatto. Le restano, ma probabilmente ancora per poco, gli 800 e i 1500, che cadranno nell’ordine. La Titmus, infatti, un po’ sazia e un po’ stanca dopo il doppio oro 200-400, negli 800 non è stata brillante come può e non ha mai messo in pericolo la vittoria della Ledecky, ma è evidente che anche su questa distanza è in corsia di sorpasso sulla statunitense. Che poi fosse stanca lo si è visto nella staffetta 4×200, quando in prima frazione della finale ha corso in 1’54”51, contro l’1’53”50 con cui aveva vinto la gara individuale, superata dalla cinese Yang Junxuan in 1’54”37.
Le sconfitte nelle gare per lei più brevi sono state anche l’ulteriore conferma di una grande pecca della Ledecky: la mancanza del cambio di ritmo, che già avevo fatto notare quando avevo parlato della sua prima sconfitta sui 200, ai Mondiali 2017 a Budapest, battuta dalla Pellegrini. Il giorno prima, vince i 1500 e, dopo mezzora, fa il miglior tempo nelle semifinali dei 200, un tempo che risulterà migliore anche di quello della Pellegrini nella finale.
Quindi, con i 1500 nelle gambe, dopo mezzora la Ledecky nuota i 200 in 1’54”69 (la Pellegrini vincerà l’oro in 1’54”73; con la sola finale dei 200, fa 1’55”18. E non basta, perché è raggiunta dall’australiana Emma McKeon (bronzo l’anno prima ai Giochi di Rio), che divide con lei l’argento. Cosa è successo? Semplice, si è ritrovata una avversaria al fianco nell’ultima vasca, lei abituata a vincere staccando tutte dall’inizio e andando in fuga, e non è stata capace di cambiare ritmo. E quasi sicuramente non ha mai effettuato un cambio di ritmo in tutta la sua vita. Così, nei 400, in cui tenta di andare in fuga, quando la Titmus la raggiunge lei non è capace di reagire. Basta guardare i tempi parziali ogni 50 metri della finale di Tokyo per avere chiaro il quadro: Ledecky 28”01 (50 m, il più basso perché la partenza dai blocchi col tuffo in acqua dà questo vantaggio) 29”66 (100), 29”67 (150), 30”10 (200), 30”02 (250), 30”65 (300), 30”13 (350), 29”12 (400); Titmus 27”88 (50 m), 29”86 (100), 30”09 (150), 30”27 (200), 30”02 (250), 30”15 (300), 29”75 (350), 28”67 (400). Una indicazione ancora più precisa arriva dalla differenza fra i primi 50 metri “normali” (esclusa la prima vasca, quella della partenza) e gli ultimi: Titmus nei 50 finali, quando c’è lo sprint per l’oro, va più veloce di 1”19 (28”67 contro 29”86), Ledecky di 0”54 (29”12 contro 29”66). Se consideriamo i 50 metri precedenti (dai 300 ai 350) rispetto a quelli da 50 a 100, si ha: Titmus più veloce di 0”11 (29”75 contro 29”86), Ledecky addirittura più lenta di 0”47 (30”13 contro 29”66). Infine, ecco la differenza di velocità fra i penultimi e gli ultimi 50 metri: Titmus più veloce di 1”08 (28”67 contro 29”75), Ledecky più veloce di 1”01 (29”12 contro 30”13). Quindi, Ledecky non è in grado di reagire all’attacco di Titmus e, soprattutto, rispetto a se stessa ha un miglioramento che è meno della metà di quello che la Titmus ha su se stessa nell’ultima vasca contro la seconda vasca (0”54 contro 1”19) e riesce a reggere un po’ nel miglioramento personale fra penultima e ultima vasca (appena 0”07 a favore della Titmus) solo perché parte da un andamento più lento (il 30”13 dai 300 ai 350, contro il 29”75 della Titmus), ed è un parziale, questo 30”13 nella penultima vasca, che è il segno di una difficoltà nel forzare verso la fine perché è un tempo superiore a ciascuno di quelli da lei ottenuti in ogni vasca dai 50 ai 250 metri, mentre il 29”75 della Titmus nella penultima vasca è inferiore a ciascuno dei parziali da lei ottenuti dai 50 ai 300 metri, di conseguenza la sua accelerazione ha un valore tecnico ancor più significativo..
Resta ad ogni modo il dato fra andatura “normale” (prima parte della gara) e quella da sprint, che mostra una differenza enorme fra le due atlete (ripeto: Titmus si migliora di 1”19, Ledecky di 0”54) e l’incapacità della statunitense di cambiare passo e ritmo.
E il peggio si è visto nei 200, quando c’è stata sì una leggera accelerazione nel finale, ma di secondo livello rispetto alle più forti. Esaminando i parziali di ogni vasca, si nota che la Ledecky ha il settimo tempo nei primi 50, il quinto dai 50 ai 100, il quarto dai 100 ai 150 e il quarto negli ultimi 50, dietro Titmus, Pellegrini (che nei parziali delle prime tre vasche è sempre ultima) e Seemanova. E anche se può apparire che Ledecky abbia accelerato, in realtà è solo riuscita a mantenere faticosamente lo stesso ritmo, come si capisce chiaramente dai suoi parziali: 27”15, 29”00, 29”40, 29”66. Al contrario, le tre più veloci di lei nell’ultima vasca si sono anche migliorate in questi ultimi 50 metri rispetto ai 50 precedenti: Titmus 28”80 contro 28”85 (e aveva fatto 28”81 dai 50 ai 100), Pellegrini 29”45 contro 29”82, Seemanova 29”54 contro 29”64. E’ davvero una disfatta, il segnale di un’era che si chiude, almeno per le sue gare più veloci.
Da registrare, però, un suo scatto d’orgoglio nella staffetta 4×200, in cui gli Usa comunque vengono stroncati dalla Cina, ma che fa registrare un parziale secondo soltanto a quello della finale di Rio 2016, nel momento in cui era al massimo della forma. La Ledecky, schierata in ultima frazione, chiude in 1’53”76, che non le basta per raggiungere la cinese Li Bingjie ma è il miglior parziale in assoluto di questa gara. A Rio, nella finale olimpica vinta dagli Usa, Ledecky aveva nuotato in 1’53”74. Nelle finali mondiali in cui è stata schierata, tranne quella di Barcellona 2013 in cui era in prima frazione (1’56”32, oro), ha ottenuto questi parziali: 1’55”64 a Kazan 2015 (ultima frazione, oro), 1’54”02 a Budapest 2017 (ultima frazione, oro), 1’54”61 a Gwangju 2019 (seconda frazione, argento). Vista così, la Ledecky può dare la sensazione di poter ancora essere protagonista sui 200, nella realtà una singola prestazione, isolata, in cui ha spremuto le sue ultime forze, non può essere messa a confronto con una gara in cui si disputano batterie e semifinali, in concomitanza con altre distanze in cui si hanno ambizioni. Ha senso quindi parlare di regina spodestata in almeno metà dei suoi domini e molto prima di quanto lei potesse temere.
IL RE DIMEZZATO
Lo statunitense Caeleb Dressel, dopo i Mondiali di Budapest e Gwangju, è ancora il più medagliato della manifestazione, 5 ori, con il consueto limite di chilometraggio: non oltre i 100 metri. Doppietta 50-100 nello stile libero, 100 farfalla (i 50 non ci sono alle Olimpiadi), le due staffette veloci, 4×100 libero e misti. Gli manca una medaglia nella ridicola 4×100 mista misti, con gli Usa che finiscono quarti, altrimenti si starebbe di nuovo a parlare di paragoni con Spitz e Phelps. Magari, si può anche ipotizzare che se Dressel non si dedicasse ai 50 potrebbe far vedere quanto eventualmente vale sui 200, ma sta il fatto che con quel tipo di muscolatura viene difficile credere che possa reggere il passo da podio, neanche da oro, su distanze superiori ai 100. Fra l’altro, qualche crepa comincia a vedersi anche nei 100, come nella farfalla, gara in cui è stato insidiato dal talentuoso ungherese Kristof Milak, già autore della cancellazione del record mondiale di Phelps sui 200, oro su questa distanza a Tokyo e in grado di doppiarlo sui 100, a cominciare dai Mondiali di Fukuoka l’anno prossimo. Fra l’altro, nei 200 gli Usa non hanno alcuno in grado di competere non tanto per l’oro ma neanche per il podio, a Tokyo bisogna scendere al settimo posto per trovare Gunnar Bentz, addirittura a 4”21 da Milak. Nei 100, Dressel, che a Gwangju aveva vinto l’oro con 1”17 di vantaggio sul russo Minakov, soffre sino alla fine e supera Milak di soli 0”23, subendo una rimonta nella seconda vasca: 26”45 contro i 26”03 di Milak, quasi mezzo secondo in 50 metri a indicare chiaramente che il suo regno nei 100 farfalla è a rischio. Nello stile libero il segnale è minimo, ma c’è anche qua: a Gwangju Dressel vince con 0”12 di vantaggio sull’australiano Chalmers, a Tokyo con soli 0”06, anche in questa gara con una seconda vasca più lenta: 24”63 contro il 24”37 di Chalmers, che ripete Gwangju come tempo totale, 47”08”, mentre Dressel è più lento, da 46”96 a 47”02. In ogni caso, un nuotatore che vince 5 ori (o 6 e 7 grazie soprattutto alle staffette veloci, fra cui le miste 4 stili, con 4 in staffetta e solo 3 individuali ai Mondiali 2015) è sì un campione, ma vale la metà rispetto a quelli in grado di gareggiare ed essere decisivi anche sui 200, oltre a vincere più ori individuali che in staffetta, che siano la 4×100 o la 4×200.
ITALIA, PIU’ CHIARO CHE SCURO
L’Italia ha preso solo 6 medaglie in piscina e una in acque libere, nessun oro, quindi questa Olimpiade può apparire negativa almeno in parte. In realtà, la delusione nasce dalle medaglie mancate che si ritenevano più che possibili e che non sono arrivate per motivi “non tecnici”: le non buone condizioni fisiche di Paltrinieri e Quadarella, reduci da malanni non banali, i crolli più che altro mentali di Pilato e Panziera, oltre a qualche prova non all’altezza delle aspettative e qualche altra che ha solo confermato i dubbi sulla partecipazione. Probabilmente l’unico rimpianto senza giustificazioni è quello per Miressi nei 100, sesto con un tempo in finale (47”86) quasi mezzo secondo peggiore del suo personale (47”45, ottenuto agli Europei a Budapest a maggio di quest’anno), che non gli sarebbe bastato per il podio (bronzo al russo Kolesnikov con 47”44), ma che gli avrebbe consentito di lottare, con un eventuale miglioramento. Ma nel complesso stiamo parlando di 7 medaglie in totale, contro le 4 di Rio (un oro di Paltrinieri nei 1500, un argento di Rachele Bruni nei 10 km, 2 bronzi di Detti negli 800 e 1500), l’unica di Londra (il bronzo di Martina Grimaldi nella 10 km), le 2 di Pechino (oro di Pellegrini nei 200, argento di Alessia Filippi negli 800), le due di Atene (argento di Pellegrini nei 200, bronzo della 4×200 maschile). Bisogna risalire a Sydney 2000 per avere 6 medaglie in piscina, di cui 3 d’oro: Fioravanti nei 100 e 200 rana, Rosolino nei 200 misti, con l’argento di Rosolino nei 400 stile libero e i bronzi ancora di Rosolino nei 200 stile libero e Rummolo nei 200 rana. Da notare, inoltre, che furono 6 medaglie per soli 3 azzurri, senza alcun podio per le donne, un risultato legato alle individualità più che alla squadra.
A Tokyo, invece, pur nelle parziali delusioni, si è vista davvero una formazione compatta, con uomini e donne alla pari nei pronostici (anche se non tutti realizzati) e soprattutto con buone prospettive per i prossimi anni.
Se ci deve essere un monito è quello di non pensare troppo a chi sarà l’avversario nella prossima gara. Mi spiego: c’erano punti di riferimento che si credevano inamovibili, atleti che su cui si credeva di dover fare la gara per ottenere una medaglia, ma si è visto che anche alcuni dei più forti sono crollati davanti all’avanzare di forze nuove. Il caso più eclatante, tanto per fare un esempio, è quello della statunitense Lily King nella rana: considerata imbattibile, dominatrice a Gwangju nei 50 e 100, si presenta a Tokyo anche nei 200, ma si becca una doppia delusione. Quindi, credere nelle proprie forze dovrebbe essere il primo convincimento su cui basare il lavoro e i traguardi. Quel lavoro che ha permesso a Federico Burdisso di prendere il bronzo nei 200 farfalla nonostante lo stress e la poca convinzione di farcela messi in evidenza da lui stesso dopo la gara. Ed è un risultato che ha una base solida. Ai Mondiali di Gwangju, nel 2019, in questa gara Burdisso è quarto in 1’54”39 dietro l’inarrivabile Milak (1’50”73, record del mondo, battuto dopo dieci anni quello di Phelps a Roma, con i costumoni, di 1’51”51), il giapponese Seto in 1’53”86 e il sudafricano le Clos in 1’54”15. E allora, perché non crederci? E a Tokyo Burdisso si prende il bronzo addirittura con un tempo superiore a quello di Gwangju, 1’54”45, dietro il sempre imbattibile Milak (1’51”25) e il giapponese Honda (1’53”73).
Lo stress, la pressione psicologica, l’emozione hanno invece colpito altri azzurri. E’ il caso di Benedetta Pilato, la prima a confessare di aver sofferto questa prima esperienza olimpica, con una inattesa eliminazione addirittura in batteria nei 100 rana, squalificata ma con un tempo che comunque non le varrebbe il passaggio del turno. Ma è anche vero che una parziale spiegazione sportiva, e non solo mentale, al suo fallimento ci può essere. Pilato gareggia nella quarta delle sei batterie, insieme alla russa Efimova. Si vede subito che il ritmo è molto lento, un po’ condizionato dalla Efimova che ha questa caratteristica, di partire piano anche nei 100 e sprintare nei secondi 50. La Pilato si trova per la prima volta in una situazione del genere e, di conseguenza, è facile immaginare che si adegui al ritmo dell’avversaria più famosa, senza considerare che è un ritmo suicida per lei. Così, quando decide di accelerare, una volta resasi conto di andare troppo piano, finisce per rompere la nuotata, fare una gambata in stile farfalla, anziché rana, e venire squalificata dopo aver chiuso in un tempo troppo alto. La dimostrazione che c’è stata un’anomalia nei ritmi delle varie batterie si ha quando si osservano le 16 nuotatrici che passano il turno: dalla quarta batteria passano solo la Efimova e la cinese Tang Qianting; poi ce ne sono 2 dalla terza, 6 dalla quinta e 6 dalla sesta. E’ evidente che nelle ultime due batterie si è corso con un riferimento ai tempi già ottenuti, che non è un fatto strano, sia chiaro, ma è strano che la quarta batteria vada così piano, condizionata, come detto, dal particolare modo di interpretare la gara tenuto dalla Efimova. Questo ovviamente non può costituire una scusa per la Pilato, piuttosto una lezione, amara, sul non farsi influenzare dal comportamento delle avversarie. E’ possibile che, se avesse superato il primo turno, poi la Pilato avrebbe potuto “liberarsi” e lottare per le medaglie, ma, se fosse vero, non sarebbe che un rimpianto ancora più grande.
I rimpianti nella rana non finiscono qua. Premesso che, una volta stabilite le regole per la qualificazione all’Olimpiade, queste vanno rispettate, ma bisognerebbe riflettere su come sono state fissate. E’ vero che la Pilato, dopo aver ottenuto il tempo per Tokyo, è stata poi superata da Martina Carraro e Arianna Castiglioni, ma è anche vero che, proprio perché sicura di andare ai Giochi, ha impostato una preparazione diversa e non poteva cambiarla per stare davanti alle altre due azzurre in ogni momento della stagione. La sua superiorità era evidente e i tempi migliori li avrebbe dovuti ottenere proprio a Tokyo. Che non sia successo, per altri motivi, non cambia il fatto che lei fosse la prima nella rana. Il problema si pone per la seconda. In base alle regole, la Carraro aveva diritto al posto, ma la Castiglioni aveva perso questo diritto solo per una questione di infortuni. Era fin troppo evidente la sua superiorità nei confronti della Carraro, che pure si è comportata bene, ma non aveva le stesse prospettive di Pilato e Castiglioni. La riprova si è avuta al trofeo Sette Colli, a Roma, prima dei Giochi: Castiglioni vince i 100 rana col record italiano di 1’05”67, davanti a Pilato in 1’05”84 e a Carraro in 1’06”08. Ma la squadra è già fatta e si decide, per premiarla, di portare anche lei a Tokyo per la staffetta mista. Entra in acqua nelle batterie della 4×100 mista e ottiene, lanciata (la prima frazione è a dorso), un tempo di 1’05”26. Ebbene, fra le batterie e la finale, c’è solo una nuotatrice che fa meglio di lei, la statunitense Jacoby in finale con 1’05”03. Nella finale, però, la Castiglioni non gareggia, c’è la Carraro. Qualche che sia la motivazione di questo cambio e tenuto conto che anche con la Castiglioni in squadra e con quel suo tempo della batteria il piazzamento finale dell’Italia non sarebbe cambiato (sesto posto a 2”41 dalla Svezia quinta), non si capisce perché non le sia stata concessa almeno questa soddisfazione. Per la cronaca, la Carraro in finale ha nuotato in 1’05”88, ben 0”62 più lenta della Castiglioni, ma il dato più interessante riguarda le medagliate e le finaliste dei 100 metri. Non si tratta, naturalmente, di un confronto sui tempi fra gara individuale e staffetta, visto che in staffetta la frazione a rana è lanciata, ma di semplice comparazione all’interno della staffetta.
L’oro individuale dei 100, Jacoby, schierata solo in finale, è l’unica, come già fatto notare, più veloce della Castiglioni, che fa 1’05”26. L’argento, la sudafricana Schoenmaker, in batteria fa 1’07”41; il bronzo, la statunitense King, in batteria fa 1’05”51; la quarta, la russa Chikunova, in finale fa 1’05”99; la quinta, la russa Efimova, in batteria fa 1’06”31; la sesta, la svedese Sophie Hansson, fa 1’05”61 in batteria e 1’05”67 in finale; la settima, Carraro, 1’05”88 in finale; l’ottava, l’irlandese Mc Sharry, non gareggia perché la sua squadra non è iscritta alla staffetta. Quindi, giusto per avere un’idea delle forze in acqua, delle prime sette nella gara individuale dei 100, che hanno gareggiato anche nella staffetta, solamente la Jacoby, oro nei 100, fa meglio della Castiglioni. Questo non significa che se la Castiglioni avesse corso i 100 individuali avrebbe vinto una medaglia, ma significa sicuramente che avrebbe lottato alla pari con tutte tranne la vincitrice. Ed è un peccato che non abbia potuto farlo.
Tornando alle delusioni, quella della Panziera nei 200 dorso è rilevante e purtroppo denota una fragilità inaspettata. Comincio col ricordare che ai Mondiali di Gwangju si presenta col miglior tempo stagionale, 2’05”72, seguita dalla canadese Kylie Masse in 2’05”94, con le altre avversarie su tempi da 2’06” basso. La gara ha un esito imprevedibile per l’oro, visto che spunta la 17enne statunitense Regan Smith che è scesa a 2’06”43 nell’anno, ma che arriva addirittura a 2’03”35 in semifinale, record del mondo della statunitense Franklin battuto di 0”71, e poi vince la finale in 2’03”69. Nessun’altra riesce ad andare sotto i 2’06”: argento all’australiana McKeown in 2’06”26, bronzo alla Masse in 2’06”62, Panziera quarta in 2’06”67 (in semifinale 2’06”62). Messa da parte la Smith, il cui progresso di quasi 4 secondi in circa sei mesi è altamente sospetto, ma essendo statunitense si parla solo di vitamine e non di doping, il rendimento della Panziera è inferiore alle attese, quasi un secondo più lenta della sua miglior prestazione stagionale. C’è la sensazione che il confronto diretto con avversarie che la spingono al limite la metta un po’ troppo sotto pressione. A Tokyo, però, la situazione peggiora notevolmente. La Panziera arriva a Tokyo col secondo tempo mondiale stagionale, 2’05”56 ottenuto il 31 marzo ai Primaverili a Riccione, meglio ha fatto solo la McKeown in 2’04”28, seguono la statunitense White in 2’05”73 e la Masse in 2’05”94, poi le altre sopra i 2’06”. Manca la campionessa mondiale Regan Smith, che non ha superato i Trials, facendo aumentare i sospetti che esamino in altro paragrafo. Avere quel tempo non vuol dire che si possa automaticamente ripeterlo, ma restarci vicini dovrebbe essere un imperativo. Ma la Panziera nuota le batterie in 2’10”26, dodicesimo tempo dei 16 che passano il turno, e poi 2’09”54 in semifinale, nono tempo, prima delle escluse dalla finale: 5 secondi più lenta rispetto a Riccione. Cosa è successo in questi quattro mesi? Ed è vero che le avversarie si limitano a tempi sul 2’07” in semifinale, ma in finale sparano un 2’04”68 la vincitrice McKeown (che aveva 2’04”28 di ingresso), un 2’05”42 l’argento Masse (che si presentava con 2’05”94), un 2’06”17 il bronzo Seebhom (che aveva 2’06”38 di entrata). Insomma, al momento decisivo, tutte le altre si mantengono sui loro tempi migliori o vanno ancora più veloci. La Panziera va più lenta di 5 secondi. Non può essere solo un problema tecnico, probabilmente è di natura mentale, solo che se la Pilato ha 16 anni ed è alla sua prima Olimpiade, la Panziera ha 26 anni, un’Olimpiade, 3 Mondiali e 3 Europei sulle spalle, non può crollare così.
Al contrario, a mostrare una forza mentale al di sopra del normale sono Gregorio Paltrinieri e Simona Quadarella. Entrambi reduci da malanni vari ed enormi buchi nella preparazione, prendono medaglie di valore uguale all’oro: un bronzo negli 800 per la Quadarella, un argento nei 1500 e un bronzo nella 10 km per Paltrinieri. Arrivederci a Parigi 2024. Infine, fra note di merito per il bronzo di Martinenghi nei 100 rana, una progressione irresistibile la sua, per Ceccon quarto nei 100 dorso, e per il rammarico per un Detti non al massimo, vanno esaltate le prove delle due staffette a medaglia, ricordando comunque il quinto posto della 4×200. Per quanto riguarda il quarto posto della 4×100 mista quattro stili, indipendentemente dal risultato degli azzurri, mi rifiuto di considerare degna di commento qualsiasi staffetta mista uomini-donne di qualsiasi sport, una buffonata irriguardosa verso il vero sport. Fra le due staffette a medaglia, credo che l’argento della 4×100 stile libero sia l’impresa più bella, non perché quella dei misti sia inferiore in base alla qualità della medaglia, il bronzo, ma perché nella staffetta veloce a mio parere l’Italia aveva avversari superiori, ma è riuscita a superarli grazie a prove superlative di Miressi, Ceccon (sempre più sorprendente nei due stili in cui si cimenta), Zazzeri e Frigo, tutti sotto i 48”. Una prestazione eccezionale. E il bronzo della mista non lo sto sottovalutando, sto semplicemente valutando di grande qualità i quattro elementi azzurri, in particolare Ceccon che in prima frazione nel dorso fa meglio dell’oro individuale Rylov e cede solo allo statunitense Murphy, e Martinenghi che a rana è secondo solo all’irraggiungibile britannico Peaty. Poi, più in difesa, Burdisso che regge sui 100 farfalla, non la sua distanza favorita, e Miressi che resiste all’ultimo assalto del russo Kolesnikov. Un’ulteriore dimostrazione che, pur fra alti e bassi, prove incredibili e prestazioni meno brillanti, l’Italia ha la squadra più compatta e di alto livello di tutta la sua storia del nuoto.
SORPRESE SORPRENDENTI E NO
Al di là dei singoli personaggi, l’Olimpiade di Tokyo è stata un palcoscenico speciale per conferme, novità e sorprese più o meno “sorprendenti”, qualcuna suscettibile di sospetti, qualcun’altra no, ma tutte molto interessanti. Da ciascuna si possono trarre utili indicazioni sulla situazione mondiale.
La sorpresa più grande è sicuramente l’oro del tunisino Ahmed Hafnaoui nei 400 stile libero. Sconosciuto prima dei Giochi, nella lista di entrata è sedicesimo col tempo di 3’46”16. Entra in finale con l’ottavo tempo, 3’45”68, nuota quindi nella corsia più esterna, la 8. Nessun uomo ha mai vinto i 400 nuotando nella corsia 8. Magari, viene in mente Atene 2004 e la gara dei 200 donne, con la romena Potec che nuota in corsia 1 e va a beffare la Pellegrini. E qui arriva la stessa beffa per tutti, Hafnaoui vince in 3’43”36, davanti all’australiano McLoughlin in 3’43”52 e allo statunitense Smith in 3’43”94. Non un gran tempo, a riprova della povertà tecnica di questa finale, dopo gli ori di Horton a Rio in 3’41”55, di Sun Yang a Londra in 3’40”14, di Park Taehwan a Pechino in 3’41”86, di Thorpe ad Atene in 3’43”10 e Sydney in 3’40”59. Bisogna risalire ad Atlanta 1996 per avere un tempo peggiore. Ma il sospetto nasce come al solito dai progressi improvvisi: migliora di 2”80 rispetto al tempo di entrata. Ai Mondiali junior 2019 nuota in 3’52”05, eliminato in batteria. Il 7 febbraio 2020 scende a 3’49”90. Nel 2021, il 29 maggio, al Mare Nostrum a Montecarlo, si migliora fino a 3’47”79; il 15 giugno arriva a 3’46”16 con cui si presenta a Tokyo. Quindi, negli ultimi tre mesi ha abbassato il suo personale di 4”43, di cui 2”80 nei pochi giorni a Tokyo. Siamo ai limiti del credibile.
In tema di progressi troppo rapidi, come già accennato, una protagonista di primo piano è la statunitense Regan Smith, meteora dei 200 dorso a Gwangju, eliminata in questa gara nei Trials olimpici statunitensi e non certo per chissà quali clamorosi exploit delle avversarie, tant’è che a Tokyo sul podio dei 200 dorso ci sono due australiane e una canadese. Smith è poi passata alla farfalla, mantenendo i 100 dorso. A Tokyo si arrabatta con un bronzo nei 100 dorso e due argenti nei 200 farfalla e nella 4×100 misti. Resta il grande dubbio: a 17 anni fa sfracelli, a 19 anni nemmeno si qualifica nella gara che l’ha resa famosa, cambia stile, prende medaglie ma non riesce più a vincere.
Un’altra che non vince più è Lily King, la statunitense che sembrava la dominatrice assoluta della rana. Dopo i botti enormi ai Giochi di Rio e ai Mondiali di Budapest e Gwangju, un altro anno senza avversarie e poi il ritorno alla normalità, certo con le medaglie, ma il brusco calo è evidente e un po’ troppo veloce, pur considerando i suoi 24 anni a fronte di un’avversaria più giovane come la 17enne statunitense Lydia Jacoby, che l’ha battuta nei 100, ma con la sconfitta nei 200 a opera della pari età sudafricana Tatjana Schoenmaker. Jacoby è la prima atleta dell’Alaska a partecipare nel nuoto alle Olimpiadi e a vincere medaglie, è spuntata fuori l’anno scorso e l’Olimpiade di Tokyo è la sua prima vera competizione internazionale. I suoi progressi cronometrici sono stati più normali rispetto ad altri “fenomeni”, resta solo da vedere quale sarà la sua evoluzione.
Per la Schoenmaker, invece, il discorso è differente, non solo per quanto riguarda l’età. La sudafricana ha un andamento normale, prima fra Panafricani, Commonwealth e Universiadi (doppio oro 100-200 a Napoli 2019), poi con i Mondiali, esordio a Gwangju 2019 e con una progressione dei tempi non sospetta: sui 100 fa 1’06”60 a Gwangju, sesta in finale, poi 1’06”42 a Napoli, oro, 1’05”89 il 19 febbraio 2021, 1’05”74 l’11 aprile, e infine a Tokyo 1’04”82 in batteria, 1’05”07 in semifinale, 1’05”22 in finale, medaglia d’argento; sui 200 parte da un 2’22”30 nel 2019, poi 2’20”17 ad aprile 2021 e chiude a Tokyo con 2’19”16 in batteria, 2’19”33 in semifinale e 2’18”95 in finale, medaglia d’oro e record mondiale tolto alla danese Pedersen (2’19”11 nel 2013). Considerato che è di soli 5 mesi più giovane della King, si possono osservare facilmente le differenze fra i due tragitti, quello esplosivo della statunitense che si affievolisce all’improvviso e quello progressivo della sudafricana che continua a crescere mentre l’altra si blocca, frutto di scuole e impostazioni diverse, anche di caratteristiche fisiche, ma è un discorso che merita approfondimenti.
Novità nel dorso donne grazie all’australiana Kaylee McKeown, 20 anni, ma è una novità attesa, viste le qualità mostrate in precedenza. Oro nei 100, 200 e 4×100 misti, ha dato lezioni alle favorite come la canadese Kylie Masse, argento 100-200, e la statunitense Smith. Considerate l’età e la dimostrazione di superiorità, è probabile che si apra un ciclo nel suo nome. Fra l’altro, insieme alle compagne di squadra Emma McKeon, doppi ori individuale 50-100 stile libero e in staffetta 4×100 sl e 4×100 misti, e Ariarne Titmus, oro 200-400 sl, ha portato l’Australia a una maestosa rinascita anche nella classifica generale, dopo anni di sofferenze. A proposito dei 200 stile libero, una citazione negativa per la britannica Freya Anderson, una ventenne che negli anni precedenti si era messa in luce come grande promessa in questa gara e che si è misteriosamente sgonfiata, tanto da non entrare nemmeno in finale, settima nella sua semifinale col 12mo tempo su 16.
A confermare invece lontane promesse è finalmente la cinese Zhang Yufei nei 200 farfalla. Già primatista mondiale junior, aveva avuto un periodo negativo, soprattutto nel 2019, poi è tornata ai livelli tecnici adeguati alla sua forza. Così, a Tokyo vince l’oro nei 200 davanti a Regan Smith e prende l’argento nei 100, dietro un’altra cinese che però gareggia per il Canada, Margaret McNeil, nata nella provincia dello Jiangxi e adottata da una coppia canadese quando aveva solo un anno, quindi tecnicamente di scuola canadese, oltre che di nazionalità. La McNeil, 21 anni, conferma l’oro vinto ai Mondiali di Gwangju 2019 e si proietta come possibile protagonista anche per i prossimi Mondiali e Olimpiadi. Tornando a Zhang Yufei, va detto che i 200 farfalla non sono una novità nella scuola cinese di nuoto. Ricordiamo gli ori di Liu Zige a Pechino 2008 (anche un oro ai Mondiali di Barcellona 2013) e Jiao Liuyang a Londra 2012 (più un argento a Pechino 2008 e l’oro ai Mondiali di Shanghai 2011). Andando più indietro, va ricordata anche Liu Limin, oro su 100 e 200 ai Mondiali di Roma 1994, una delle cinesi uscita pulita dallo scandalo doping di quella squadra in cui, comunque, ricordiamo per dovere di cronaca, le nuotatrici trovate poi positive ai Giochi Asiatici il mese dopo erano tre su un totale di undici, anche se una memoria distorta mette nel mucchio tutte quante. Liu Limin proseguì poi gli studi e la carriera negli Stati Uniti, dove continuò a vincere gare nazionali.
Zhang Yufei, mezzora dopo l’oro nei 200 farfalla, si rende protagonista di un’altra impresa, la vittoria della Cina nella 4×200, davanti agli Usa cui non basta la Ledecky in ultima frazione. Le cinesi Yang Junxuan, Tang Muhan e Li Bingjie in ultima frazione, insieme alla Zhang, stabiliscono anche il record mondiale in 7’40”33, togliendolo all’Australia (7’41”50), che in questa gara arriva terza. Non è però una vera sorpresa perché le australiane avevano stabilito il record ai Mondiali 2019 a Gwangju strappandolo proprio alla Cina che aveva vinto l’oro ai Mondiali di Roma 2009 in 7’42”08, togliendolo a sua volta all’Australia, oro l’anno prima a Pechino in 7’44”31. Un doppio passaggio di consegne che fa capire come in questa gara l’alternanza Australia-Cina nei record e anche con gli Usa nelle vittorie non è affatto qualcosa di strano.
Infine, risalta la definitiva caduta dell’ungherese Katinka Hosszu nei misti, ormai non più in grado di competere per le medaglie, sfiancata da una carriera lunghissima e mantenuta a ritmi sovrumani di allenamento. Nei 200 è settima a più di 3 secondi dal bronzo e a quasi 4 dall’oro, nei 400 è quinta a un secondo dal bronzo e a 4 dall’oro. E’ un finale malinconico per lei che era reduce da doppiette olimpiche (Rio 2016) e Mondiali (addirittura quattro, dal 2013 al 2019, più un oro nei 400 e un bronzo nei 200 a Roma 2009). A prendere il suo posto sul podio più alto è la giapponese Yui Ohashi, non una nuova entrata, visto che ha 26 anni e già si era messa in mostra ai Mondiali di Budapest 2017, argento nei 200, e Gwangju 2019, bronzo nei 400. Alla sua prima Olimpiade ha sbancato mettendosi dietro ben quattro statunitensi, con una bellissima rimonta nell’ultima vasca dei 200 e conducendo in fuga dai 200 fino al termine nei 400. Due prove formidabili.
IL MEDAGLIERE
Gli Stati Uniti sono primi nel medagliere del nuoto, con 11 ori, 10 argenti e 9 bronzi, in totale 30 podi, ma questo risultato segna un sensibile passo indietro rispetto alla precedente Olimpiade (2016, Rio: 16 ori, 8 argenti e 9 bronzi, 33 medaglie in totale), ai precedenti Mondiali di Gwangju 2019 per quanto riguarda le vittorie (14 ori, 8 argenti, 5 bronzi, 27 in totale) e a quelli di Budapest 2017 in generale (18 ori, 10 argenti, 10 bronzi, 38 in totale). Restando alle Olimpiadi, bisogna risalire addirittura a Barcellona 1992 per il bottino minimo di ori (10, con 8 argenti e 7 bronzi) e a Seul 1988 per il totale minimo e la sconfitta nel medagliere, sia pure contro una Germania Est (11-8-9) sotto l’ombra del doping, secondo posto con 8 ori, di cui 3 fra le donne, tutti e tre grazie alla fenomenale Janet Evans, 6 argenti e 4 bronzi.
La differenza negli ori rispetto a Rio, in linea di massima, viene da poche gare: due ori in meno dalla Ledecky nei 200-400, due in meno da Ryan Murphy nei 100-200 dorso, a opera del russo Rylov e con relativo pianto greco di Murphy, che accusa Rylov di doping, i 200 misti orfani di Phelps con l’oro che va al cinese Wang Shun, la 4×200 uomini in cui gli Usa si fermano al quarto posto. Sono tutte gare in cui gli Usa non sono riusciti a trovare atleti in grado di prendere il posto dei campioni. Basti pensare che nei 200 uomini devono accontentarsi del sesto posto di Kieran Smith, evanescenti gli altri. E se nei 200 donne gli Usa, come seconda della Ledecky, non hanno di meglio che Allison Schmitt, oro a Londra nove anni fa e poi scomparsa, adesso nemmeno in grado di qualificarsi per la finale, e nei 100 c’è una sola statunitense in finale, la Weitzeil, che arriva ultima, con la campionessa mondiale in carica Manuel che nemmeno è riuscita a superare i Trials, confermando tutti i dubbi che c’erano sempre stati su lei, significa che qualche problema nei ricambi esiste.
Di rilievo la rinascita dell’Australia che è seconda nel medagliere 21 medaglie, 9 ori, 3 argenti e 9 bronzi, bisogna tornare a Pechino 2008 per avere qualcosa di simile, anche se inferiore negli ori, 6-6-8, e ad Atene 2004 con 15 podi (7-5-3), secondo posto dietro gli Usa in entrambi i casi. I 9 ori sono anche il miglior bottino della storia olimpica australiana, superate le 8 di Melbourne 1956, anche se, dal punto di vista tecnico, quel risultato è nettamente il migliore, visto che allora c’erano solo 13 gare in tutto, 7 maschili e 6 femminili, a Tokyo sono state 35 (17 e 17 più una mista), più 2 di fondo. Ma è un gran segnale di riscossa, rimanendo ai tempi moderni, basti pensare che a Londra 2012 erano state 10 in totale (1-6-3), e 10 anche a Rio 2016 (3-4-3). Come già fatto notare, il merito principale è di tre donne che conquistano 2 ori ciascuna individualmente, con altri 2 nelle staffette, gli uomini si impongono soltanto con Izaac Stubblety-Cook nei 200 rana e, in generale, sono dimezzati dalle compagne di squadra, 6 medaglie contro 13.
Gennaro Bozza (prima parte. Foto tratta da lastampa.it)