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Che cosa vuol dire oriundi? Da definizione della Treccani:
“Essere oriundi italiani significa avere origini italiane più o meno lontane, ma essere nati e cresciuti all’estero”.
Mateo Retegui, Jorginho, Tolói ed Emerson Palmieri sono oriundi. Wilfried Gnonto, nato a Verbania, e Destiny Udogie, nato a Verona, non sono oriundi. Sono a tutti gli effetti italiani anche se, a oggi, devono aspettare di compiere la maggiore età per essere legalmente riconosciuti come tali. È l’effetto della prevalenza nel nostro paese dello ius sanguinis sullo ius soli.
Quando il nostro CT parla di quindici oriundi a testa per Belgio e Svizzera sta facendo confusione o, peggio, dimostra di ignorare il significato del termine. Tra i ventisei giocatori del Belgio che hanno preso parte al mondiale qatariota era presente un solo oriundo: Amadou Onana, nato a Dakar, Senegal. Gli altri, da Lukaku a Batshuayi, da Witsel a Doku, sono tutti nati in Belgio. E tra gli svizzeri a Qatar 2022 si trovano solo due oriundi: Embolo, nato in Camerun, e Shaqiri, originario di Gjilan, Kosovo. Gli altri hanno tutti visto i natali tra Zurigo, Berna, Lucerna e Basilea.
Seconda cosa: quali sarebbero le nazionali che ci hanno privato di giocatori che abbiamo amorevolmente cresciuto? La Polonia con il nativo di Tivoli Zalewski? L’Albania con Asllani? Detta così, sembra che i due siano stati strappati dalla culla azzurra, in realtà sono scelte consapevoli di ragazzi che hanno genitori nati in altri paesi. Esattamente come Mateo Retegui. Nicola Zalewski ha ribadito più volte i motivi che l’hanno portato ad accettare la corte della nazionale polacca: nel giugno 2022 dichiarava a Sportweek di aver accettato la chiamata di Michniewicz in quanto il Mancio non l’aveva mai ufficialmente cercato, al contrario della Polonia che l’aveva convocato fin dai tempi dell’Under 15.
Lo scorso 28 marzo, la Gazzetta dello Sport ha annunciato l’approdo a Coverciano di altri quattro oriundi argentini. Marco Di Cesare, difensore classe 2002 dell’Argentinos Juniors. Gianluca Prestianni, attaccante diciasettenne del Velez noto come El Pulguita (“la piccola pulce”) per alcune movenze alla Messi. Nicolás Capaldo, centrocampista ventiquattrenne con alle spalle antenati marchigiani dal 2021 in forza al Red Bull Salisburgo e in gol contro la Roma in Europa League. Giuliano Galoppo, mezz’ala del San Paolo, da bambino ha vissuto nove anni a Sanremo perché suo padre giocava nella Sanremese. Ha detto di ricordarsi molto bene il periodo del Festival, della cittadina presa d’assalto dalla stampa e dai curiosi e delle serate trascorse in compagnia della mamma davanti alla TV. Sudamericani come italiani e italiani come sudamericani.
Gli oriundi col fez in testa
La presenza di giocatori stranieri nel calcio italiano è sempre stata in stretto rapporto con le complicate e spesso mutevoli regole che hanno governato il gioco. Dopo la Carta di Viareggio del 1926, solo gli oriundi (limitati a due per squadra) erano permessi. Questa regola – che provocò un esodo di giocatori inglesi e dell’Europa centrale – rimase in vigore fino al ’49, quando la categoria stessa fu brevemente abolita. Nel 1955 gli oriundi tornarono, ma dal 1956 in avanti erano consentiti solo quelli che avevano giocato in Nazionale. Gli oriundi non erano né italiani né non-italiani. Venivano allora percepiti come di sangue, cognome e famiglia italiani, ma spesso non erano mai stati in Italia e non parlavano italiano, cosa che è accaduta anche recentemente con Mateo Retegui. Sulla carta, gli emigrati nati in Italia o i figli di emigrati erano, semplicemente, italiani con più o meno gli stessi diritti di quelli che vivevano in madrepatria. Un termine più adeguato era “rimpatriati”, anche se l’espressione “oriundo” sopravvive ancora oggi.
Le ragioni dell’invasione nel nostro calcio anni Venti di “oriundi” o, se preferiamo, “rimpatriati” erano meramente economiche. L’Argentina era invischiata in una crisi economica profonda. Il calcio italiano era, invece, ricco e poteva offrire uno stipendio mensile di 4000 lire, quattro volte quello di un medico o di un avvocato, ai migliori o presunti tali calciatori argentini, brasiliani, uruguagi, purché fossero di origini italiane. I grandi club cominciarono a scovare talenti tra le comunità italiane di Buenos Aires e Montevideo. La Juventus tesserò Raimundo Orsi, per gli argentini “creolo puro” mentre per gli italiani cittadino del loro Paese, e Luisito Monti rispettivamente nel 1928 e nel 1931. Entrambi si rivelarono fondamentali nei successi della squadra bianconera e della Nazionale negli anni Trenta. Il trasferimento dei fuoriclasse dal Sudamerica all’Italia era visto in termini coloniali, e le autorità fecero del loro meglio per frenare tali spostamenti.
Vittorio Pozzo distingueva tra “discendenti diretti” di italiani e gli altri. Quelli nati in Italia, come ad esempio Cesarini (che lasciò Senigallia per andare in Argentina a un anno di età), erano considerati più “italiani” di quelli nati in Sudamerica. Il fascismo promosse l’italianizzazione degli oriundi, ed esaltò il ruolo che svolsero nei successi degli anni Trenta. Il regime fece affidamento su di loro per vincere i campionati, ma poi li discriminò dopo queste vittorie. Nel 1934 ai tre che erano presenti nella Nazionale campione del mondo non fu consegnata la medaglia speciale con cui furono premiati gli altri giocatori. L’intera categoria andò in crisi quando il tesseramento o meno per una nazione divenne questione di vita o di morte: l’invasione dell’Etiopia nell’ottobre 1935. Scopelli, Stagnaro, Orsi, Guaita fuggirono in Francia non appena venne recapitata loro la lettera di precetto. Nessuno di loro giocò mai più in una squadra italiana né in Nazionale.
Dopo la guerra le cose cambiarono. Le regole furono rabberciate alla meglio in linea con i capricci politici, le prestazioni della Nazionale, la pressione dei club e la legge europea. Nel 1965 tutti gli stranieri furono messi all’indice: ma questa è un’altra storia.