“Disordinato” è una delle parole-chiave del tennis spagnolo, quello che ha prodotto tanti numeri 1 del mondo negli ultimi anni. L’ha professata Carlos Moya che è rimasto sul trono appena due settimane aggiudicandosi comunque uno Slam in due finali, sono state il credo del mitico Rafa Nadal che s’è fermato al comando per ben 209 settimane, e adesso Juan Carlos Ferrero, che ha regnato per appena 8 settimane, vuole assolutamente trasmettere il dogma al suo allievo, Carlos Alcaraz. Il quale, a sua volta, dopo 36 settimane complessive al comando del ranking, lascia di nuovo lo scettro a Novak Djokovic. Del resto, “disordinato”, ripeteva sempre Flavia Pennetta, anche lei adottata dalla scuola spagnola con Gabriel Urpi a Barcellona, per spiegare quello che andava e non andava nel suo gioco. E, quando parla del primo Alcaraz, mastro Ferrero ripete sempre: “La prima volta che l’ho visto ho pensato che era troppo disordinato”. Così come negli ultimi giorni, il campione del Roland Garros 2003 che pochi mesi dopo perse la sua seconda finale Slam, a New York, contro Andy Roddick (l’ultimo urrà yankee), lanciava l’allarme: “Lo vedo disordinato”. Malgrado Carlitos avesse lasciato per strada appena una set in 5 partite, contro Evans. Ma, da saggio cultore del tennis spagnolo, da esperto conoscitore del fenomeno-Carlitos, Ferrero sapeva che cosa diceva.
DISORDINATO
In campo, ultimamente, Alcaraz è disordinato perché sa di avere mille soluzioni fra le tante frecce della magica faretra e, soprattutto nella Grande Mela, distratto ed eccitato dall’elettricità della città che non dorme mai, tende a gigioneggiare, cercando la soluzione più spettacolare per far contento il pubblico e il suo animo bambino e un po’ narcisista. Ma così è disordinato: non fa le cose giuste, non è consequenziale e perfetto nella sua azione, nella complessa equazione di una partita di tennis che già è tempestata di mille, imponderabili, variabili. Poi magari, forte com’è, fra potenza e tocco, fisico e fantasia, trova lo stesso la soluzione del problema, ma al maestro proprio non piace il percorso che l’alunno vuole seguire. Perché così dimentica le formule, si stacca troppo dalle basi, e, sotto pressione, magari quando mie ha più bisogno non se le ritrova più nella testa, non usa recuperarle, si arrabbia, si intestardisce e si perde. Succede, del resto a 20 anni, che anche un super-eroe precocissimo come Carlos, veda spuntare nella testa quel pensierino maligno e inarrestabile che, prima o poi, fa lo sgambetto alle ambizioni, alla, cattiveria agonistica: “Vabbè, sarà per la prossima volta, sai quante occasioni avrai ancora!”.
URGENZA
I ragionamenti del 36enne Novak Djokovic e del 27enne Daniil Medvedev sono invece diametralmente opposti. A quell’età, e dopo aver sofferto molto più di Carlos Alcaraz, con meno facilità dei ventenni Ben Shelton che hanno bruciato le tappe, dopo aver bevuto entrambe l’amaro calice delle difficoltà, delle bocciature, della sofferenza, della frustrazione, vogliono tutto oggi, subito, senza pensare al domani. Che è sempre incerto e nel tennis è ancor più nebuloso. Loro, Novak e Daniil l’ordine lo pretendono da se stessi, se ne cibano, lo alimentano colpo dopo colpo. A cominciare dalla prima di servizio con la quale, non a caso, superano entrambe oltre l’80% di efficacia nelle semifinali contro i giovani rivali. Così, come, non a caso, lottano su ogni palla, non regalano un “15”, costringono i cavalieri rampanti delle racchette a ribattere sempre una palla di più, a soffrire, a non distrarsi mai, a seguire una disciplina, un ordine, che, a quell’età, pur con le loro tante qualità, i due ragazzi terribili non possono possedere.
BUM BUM BEN
Così, anche Shelton l’effervescente si ritrova da subito respinto oltre la riga di fondo a fare un gioco di rimessa che non gli piace, che lo annoia, che lo indispettisce, a contrastare una palla che arriva implacabile sempre vicino ai suoi piedi, sempre negli ultimi centimetri di campo. E’ una situazione che lo irrita, dalla quale cerca di uscire di rabbia, cercando soluzioni sempre più a rischio, picchiando la palla sempre più forte e commettendo troppi errori, regalando così troppi punti facili ad un avversario sempre più roccioso che s’aggrappa invece al servizio e alla risposta. E non molla le sue certezze, il suo ordine delle cose. Una strategia che, sia pure col brivido sul finire di terzo set, alla fine gli dà ragione. E rimette le cose a posto: per Novak è la quarta finale Slam stagionale, per Daniil è la conferma delle sue capacità sul cemento e nelle maratone Majors con più possibilità per riassestare le cose. Anche se adesso, chi vuole vincere di più dovrà confondere l’avversario, dovrà disorientarlo, dovrà sconvolgere l’ordine del suo gioco, magari buttandosi di più a rete come fece Wilander in una memorabile finale contro Lendl. Benvenuti nello sport inventato nel diavolo.