«Una macchina da gol che si è rotta proprio quando stava per diventare il migliore di tutti» – sospiri e parole del rivale Diego Armando Maradona, tanti auguri (in ritardo) anche a lui.
C’era una volta… verrebbe da dire: stiamo parlando, dopotutto, di un cigno, no? Ma raccontiamo una fiaba e non una favola. Il lieto fine non c’è anche se lo vorremo dal profondo del cuore.
Il dolore, l’eterno compagno. A volte un semplice fastidio, altre una sensazione lancinante, che non ti permette neanche di poggiare i piedi a terra. E allora meglio una pausa, che poi diventano due, tre, quattro… che sommate fanno dei mesi che tutte insieme fanno anni, sabbia che scorre nella clessidra che nessuno ridarà mai a lui e, soprattutto, al calcio. È un punto delicato la caviglia per un atleta che quando si ritrova il pallone tra i piedi sembra volteggiare sulle note di un’orchestra sinfonica. Van Basten, infatti, non era semplice virtuosismo. Il fisico dinoccolato ha sempre tratto tutti in inganno: dovrebbe essere sgraziato come un anatroccolo ed invece è bello e coordinato come un cigno. Ma il cigno è animale fragile e le cui ali a volte si spezzano.
Il cigno vola, come quella palla un po’ sbilenca e fuori misura che arriva sul piede di Marco Van Basten quasi senza pretese, in un pomeriggio di giugno di tanti, troppi anni fa sul prato verde dello Stadio olimpico di Monaco di Baviera. Terra ostile la Germania per chi è cresciuto all’ombra dei tulipani. Il sogno di un’infanzia intera si era proprio infranto lì, in quello stadio. Un sogno nato in un minuto e mezzo e svanito in novanta. Marco, in ogni caso, se la ricorda a menadito quella ragnatela di passaggi, che aveva portato al rigore dell’uno a zero. E’, ormai, una filastrocca, una nenia che si sussurra ai bambini per farli addormentare. E Marco la ripete tra sé e sé a mentre la sfera scende tanto dolcemente quanto la voce di una mamma mentre culla un neonato. Qualcuno deve pur vestirsi da Icaro, deve pur farsi spuntare un paio di ali sulla schiena. Deve pur osare, a costo di inimicarsi gli dèi. E’ ora di lasciarsi l’incubo alle spalle.
La sfera pare quasi esplodere, quando impatta con il piede destro di Van Basten. Dentro quel calcio c’è tutto, c’è la storia calcistica d’Olanda di ieri, oggi e domani. C’è l’inutile gol di Neeskens di quattordici anni prima, c’è l’urlo di Resenbrink strozzato da un palo argentino, c’è, Marco non può ancora saperlo ma ne siamo certi, il pianto amaro di Sneijder a Johannesburg. C’è l’ira degli eterni incompiuti, di quelli che per ottenere il minimo devono sempre vestire i panni di Ethan Hunt. E la Mission Impossible qui è tutta nella posizione da cui Marco scocca il tiro, troppo defilata per combinare davvero qualcosa. Ma lui sente sulla pelle che è il momento giusto, l’attimo in cui tutti gli astri possibili si allineano e calcia, più forte di quanto abbia mai fatto, in maniera così perfetta che scavalca il portiere e finisce in porta sul palo più lontano.
Lacrime… Marco le conosce bene. Lacrime sue, lacrime nostre quando annuncia che è finita. La caviglia non regge, procrastinare non è più possibile. Si è già provato abbastanza. Due anni di calvario totalmente inutili. E si grida e sempre si griderà all’ingiustizia e alla sfortuna, come poveri calimeri. È così che il vuoto ci pervade. La presa di coscienza che qualcosa c’era e che ora, di colpo, non tornerà più. La maglia numero sedici e l’intramontabile nove, le coppe, persino i Palloni d’Oro perdono di significato quando diventano passato. Ogni ricordo ferisce il cuore. Siamo tutti sottosopra.
Sottosopra proprio come Il Cigno di Utrecht ha visto il mondo una sera novembrina del 1992. Quella stramaledetta caviglia ha deciso di interrompere la tregua per il Cigno e fa male ormai da tanto, troppo, eppure lo speaker del Meazza annuncia Van Basten tra i titolari. E non si nota alcuna sofferenza sul viso di Van Basten, impenetrabile come al solito. Marco si muove leggero ma letale, “vola come una farfalla, pungi come un’ape” disse qualcuno. Sembra quasi più un felino che un cigno. Ma le ali ce l’ha, lo sa Marco e lo sappiamo noi, che non ci meravigliamo più di tanto quando si stacca da terra come se fosse sulla luna e decide che l’unico modo possibile per colpire quel pallone arrivato al limite dell’area è proprio quello lì, la cilena, o la rovesciata se preferite. E rischia, perché le caviglie malandate sono due. Certo, la sinistra più della destra, ma anche l’altra lo ha fatto soffrire. Ora, si è aggiunto anche il ginocchio. Il corpo di Van Basten ha gridato per tutta la sua carriera: “Marco, arrenditi, non sei fatto per volare!” Ma come, non l’ape, ma il famoso calabrone, lui non lo sa e vola ugualmente, cadendo anche con stile.
O forse lo sa, convive con la coscienza della sua fragilità, ma non per questo ritrae la gamba. E allora Marco salta, va a contrasto, dribbla, evita interventi da macellaio, si getta a capofitto in una selva di pedate e colpi proibiti, tutto per poter alzare le braccia al cielo e sentire l’urlo di San Siro, il canto rossonero di Smaila, per sapere che anche questa volta ce l’ha fatta, che la sua forza ha avuto di nuovo la meglio sulla sfortuna e l’ineluttabile. I suoi antenati hanno lottato contro la marea, si sono guadagnati il futuro. Marco Van Basten, nel suo piccolo, quella lotta la ripete ogni giorno, per dimostrare a se stesso e agli altri che l’unico limite è nella testa. “E’ tutto qui” – come amava ripetere Bjorn Borg.
Viene da chiedersi quale altro obiettivo avrebbe potuto raggiungere se il suo corpo avesse retto, lo avesse coadiuvato a dovere. Tre Palloni d’Oro possono sembrare pochi nell’era in cui Messi ha appena sistemato sullo scaffale di casa l’ottavo della sua carriera. Ma lui e CR7 sono stati così superiori agli altri che non sanno cosa sia davvero la competizione. Non hanno idea di cosa significhi dover risplendere in un calcio in cui hai possibili pretendenti all’ambito premio tra le mura amiche. C’è tanto di Marco in ogni trionfo di quei Milan, dal colpo di testa in tuffo contro il Real alla doppietta contro la Steaua, dall’assist per l’amico Frank al Prater di Vienna fino alla rete al San Paolo che nel 1988 manda il Diavolo in estasi, ma che a Tutto il Calcio Enrico Ameri non vede, gridando alla traversa.
È paradossale, forse un po’ comico, ma per uno dei giganti della storia rossonera, purtroppo, c’è anche un posticino all’inferno. Tante, troppe operazioni e luminari che non sanno che pesci prendere. Tra l’ultima partita in maglia rossonera, la sfortunata finale di Coppa Campioni ’93 contro il Marsiglia, che tra l’altro gioca in condizioni disastrose, e il canto del cigno passano due anni. E non c’è giorno in cui una processione interminabile di persone non faccia capolino in quel di Milanello a chiedere di Marco, a cercare di dargli forza, mentre lui, davanti allo specchio della sua stanza, probabilmente comincia a rendersi conto che la forza da sola non basta più. “Come sta Marco? Quando torna Van Basten?” Non sono semplici interrogativi, ma piuttosto il lamento straziante di una generazione che capisce che il destino gli sta strappando via il suo eroe, il suo Prometeo che con la fiamma ha rischiarato prospettive calcistiche fino ad allora inesplorate.
Ma anche nell’insensato momento del ritiro, nella tristezza dei tanti che hanno dovuto ripiegare i poster appesi ai muri e relegare le tue gesta nella gloriosa e malinconica cineteca dei ricordi, resta la fortuna di aver potuto ammirare la classe immensa di Marco Van Basten. Se questa è davvero una fiaba, allora Andersen insegna. Non importa che sia nato in un recinto di anatre: l’importante è essere uscito da un uovo di cigno.