Bisogna credere in Stefano Pioli. È doveroso. La simpatia non c’entra, anche se è difficile per l’essere umano comprendere il perché si riponga fiducia in qualcosa. Ciò detto, Pioli è un ottimo allenatore, perché allenare va al di là della trasmissione dei propri schemi e delle proprie idee di gioco.
In primis, occorre la componente umana: nessun giocatore dall’ottobre 2019 ha mai criticato il tecnico emiliano sotto questo aspetto. Certamente, Pioli non è riuscito ad entrare in sintonia con tutte le pedine avute negli anni a disposizione, Paquetà e De Ketelaere su tutte, ma questo fa parte delle regole del gioco. Prendiamo, però, il caso Yacine Adli: desaparecido per tutta la passata stagione, ora stabilmente inserito nelle rotazioni a centrocampo ed una delle voci più interessanti da ascoltare nei post-partita dei rossoneri. Per tutta la scorsa annata, lo scarso impiego di Adli era costato a Pioli un profluvio di critiche social. Con il franco algerino che, giocando un paio di scampoli di partita tra 2022 e 2023, è diventato un idolo della tifoseria proprio perché, questo era il percepito, inviso all’allenatore. In estate, con la conferma di Pioli in panchina, Adli avrebbe potuto salutare la compagnia. Invece, non solo è rimasto ma, pur di dare il proprio contributo alla causa rossonera, ha studiato per cambiare ruolo e da trequartista puro è arretrato di qualche metro, trasformandosi, pur con tutte le imperfezioni da limare, in un regista.
Oggi, Adli non perde mai occasione di ringraziare il mister e il suo staff, abili e disponibili nell’aiutarlo in questa metamorfosi. E la conferenza stampa alla vigilia di Milan – Slavia Praga è stata una sorta di manifesto; ad una domanda di un cronista presente in sala, Adli risponde: “Ora in campo vedo delle cose che prima non vedevo” – Pioli, seduto alla sua sinistra, annuisce orgoglioso. Il miglioramento di Yacine è anche merito suo. Nonostante fisse, abbagli e quant’altro, Pioli ha più volte dimostrato che con impegno e duro lavoro le sue idee possono cambiare.
Pioli è al Milan da cinque anni e ha fatto centinaia di conferenze stampa: non ha mai punzecchiato o denigrato anche solo velatamente un suo giocatore. Non ha mai esitato ad assumersi le sue responsabilità e, quasi mai, ha addotto scuse che non fossero oggettive. Un’eccezione si è verificata qualche settimana fa: parlando di Chukwueze, ha affermato che se il nigeriano vuole arrivare ai livelli di Pulisic, con l’americano che sta vivendo la sua miglior stagione in carriera al primo anno in uno dei campionati più tattici e in un ruolo non suo, deve lavorare di più. Modi e toni, forse, aspri ma che hanno dato presto i loro frutti: l’ex Villareal ha realizzato domenica scorsa la sua prima rete in serie A, chiudendo a doppia mandata la trasferta al Bentegodi a favore del Milan.
Pioli ha avuto e sta avendo meriti anche nel valorizzare i giocatori a sua disposizione: Tomori, Theo, Leao, Bennacer, Tonali, Kalulu, Brahim Diaz, con quest’ultimo che non manca mai di ricordare quanto sia stata importante la parentesi triennale milanista per essere ciò che è ora al Real. La lista può continuare con Kessie, Calha oppure Giroud, mai così prolifico dai tempi delle prime esperienze col Montpellier, o lo stesso Loftus-Cheek, ritrovatosi dopo anni, calcisticamente parlando, di declino. Persino Jović, scartato dalla Fiorentina per arrivare a Nzola (due gol in A in 27 partite per l’angolano), si è rivitalizzato.
Capitolo risultati: è oggettivo che Pioli negli ultimi due anni non abbia messo in bacheca alcun trofeo. Con il nuovo millennio, il Milan ha vinto tutto tra il 2003 e il 2007 sotto la guida di Carlo Ancelotti. Dal 2008 a oggi, però, il Milan ha vinto due Supercoppe italiane (2012 e 2016) e due scudetti (2010-11 e 2021-22), l’ultimo dei quali griffato, appunto, Pioli. Ogni generazione ha la sua idea di Milan: chi è nato tra gli anni ‘60 e la prima metà degli anni ’80 ha visto sollevare al cielo dai rossoneri circa il 60% dei trofei della storia del diavolo. Per la precisone, ventisei trofei in ventidue anni. Allora, un Milan vincente era la normalità, com’è giusto che sia.
Il Milan dell’ultimo decennio è stato, però, la squadra di Kèvin Constant, Luiz Adriano, Bertolacci, Essien e di un’impressionante altalena alla guida del diavolo: nove allenatori diversi in panchina tra il gennaio 2014 e l’ottobre 2019. Una squadra che nel maggio 2017 festeggiava un sesto posto, valido per la qualificazione ai playoff di Europa League, come un trofeo. Per anni, la normalità è stata lottare per il nulla. E se oggi Pioli riceve critiche, è perché quella normalità l’ha demolita in un quinquennio. Oggi, arrivare terzi o secondi in classifica sa di fallimento per parte della tifoseria. Si parla di Milan come se fosse nella situazione di Lazio o Napoli.
È questa la più grande vittoria di Pioli. L’eredità che l’emiliano lascerà in dote al diavolo. Nel tempo, ha alzato talmente tanto il livello nei confronti suoi e della squadra, che i tifosi sono tornati a credere che lo scudetto sia la normalità. Ci sono stati ovviamente degli errori e, alle volte, anche degli orrori soprattutto tattici; ma soltanto una persona non sbaglia mai: quella che non fa nulla. Voleva essere un normalizzatore e le parole pronunciate nel post-partita di Roma – Milan 2 a 1 del 27 ottobre 2019 testimoniavano di un processo già in essere: “Qui sembra che vincere, pareggiare o perdere non cambi nulla”. Oggi, questa missione può dirsi compiuta.