Il 9 maggio 2020 è scomparso a Rosario, in Argentina, Tomás Felipe Carlovich, detto “el Trinche”. Aveva 74 anni ed è stata una morte triste. Aggredito da un balordo che voleva rubargli la bicicletta, è caduto battendo il capo al suolo e non si è piú ripreso. Dicono che Rosario sia una delle città piú violente dell’ Argentina. Eppure il Trinche si muoveva tranquillamente sentendosi protetto dalla sua sua fama e dall’affetto che lo circondava.
Ma chi era “el Trinche” Carlovich?
Ne hanno parlato i giornali argentini e spagnoli. In un momento in cui il calcio giocato era fermo il Trinche è diventato notizia. Ne ha parlato persino qualche periodico italiano, ma più per curiosità aneddotica che per reale apprezzamento o conoscenza.
El Trinche era un calciatore. Il suo nome è una leggenda nel calcio argentino. Un altro calciatore, inglese di origine, in seguito giornalista in Spagna, Michael Robinson, anche lui scomparso in quei giorni, mandò un’équipe del suo programma “Informe Robinson” sulle tracce di Carlovich, realizzando uno straordinario e commovente reportage. È il ritratto di un modo di vivere il calcio che sta sparendo e che vive ormai solo nella memoria di chi lo ha vissuto e lo ha amato. Un calcio davvero molto distante dall’attuale e che vale la pena conoscere. Apparve su Canal plus. Chi ha dimestichezza con lo spagnolo può cercarlo su Internet, meglio se nella sua versione integrale di oltre un’ora.
Il Trinche è quindi un pretesto, un’occasione per una riflessione intima su un gioco di cui il calciatore rosarino è stato un interprete emblematico.
L’Argentina, insieme al Brasile e all’Italia di qualche tempo fa, è un territorio in cui il calcio si vive ancora in modo speciale, con una smisurata passione ma anche con una certa competenza popolare. Il calcio permette quasi ovunque una identificazione con la palla e lo spazio che affascina i piccoli e le piccole in ogni continente. Ma in alcuni territori è entrato a far parte della cultura popolare, di una speciale arte del dettaglio, persino di un linguaggio evocativo che passa alla vita. Assegna, o assegnava, anche uno speciale riconoscimento sociale che un tempo si concentrava non solo nei campioni ma anche negli idoli di paese o di quartiere. Niente a che vedere con l’attuale idolatria commerciale. Jorge Valdano sostiene che il football è forse l’unica cosa che il proletariato ha strappato alla borghesia, perlomeno per ciò che riguarda chi lo gioca. Lo conferma in parte anche la serie televisiva “The English Game” che tratta appunto dell’origine del gioco.
Quando non esistevano le costosissime “scuole di calcio” dei nostri giorni, a pallone si iniziava e si imparava a giocare per strada. Si giocava sotto casa per entrare in seguito in una squadretta, a sette, di quartiere o di oratorio; i migliori si presentavano a un “provino” o, per esempio, in Italia, a una “leva calcistica” annunciata con manifesti nei quartieri, per una squadra iscritta ai campionati federali. Se si veniva scelti cominciava la trafila, e relative selezioni, dalle giovanili fino alla prima squadra. Questo era il cursus honorum di chi si dedicava al football; e nel mezzo poteva giungere la chiamata di una squadra importante, se non si faceva già parte del suo vivaio.
Tutto ciò aveva un corredo anche simbolico. Le scarpe coi tacchetti e i palloni di cuoio erano cari. Ci si avvicinava a questi oggetti con desiderio e con rispetto. Se si era troppo giovani, o non troppo bravi, non ci si presentava in un campo con un paio di “adidas” o di “puma” perché, in qualche modo, doveva essere il talento e non il denaro a permettere di calzarle. Chi le esibiva senza averne il “diritto” non era ben visto. Se le cose andavano bene, nel calcio dilettantistico di buon livello, era la società a fornire scarpe, tute, borse e persino qualche premio partita. Chi giocava benino a pallone normalmente non doveva pagare per farlo.
In Argentina il giovane, o giovanissimo, calciatore doveva venire dal “potrero”, un campetto piú o meno improvvisato e in terra battuta. Sulla terra e nel fango bisogna imparare in fretta a destreggiarsi. Esiste un filmato di un campetto rosarino dove un piccolissimo Messi, con il pallone attaccato al piede, dribla tutti gli altri bambini, alti il doppio di lui. Ce n’è un altro con un Maradona forse undicenne impegnato in una infinita serie di palleggi con la testa. Come Messi e Maradona anche el Trinche è diventato calciatore nei campetti. Anzi, il Trinche lo è rimasto per tutta la vita.
A proposito di scarpe e tacchetti, il Trinche raccontava che gli è costato tempo e fatica abituarsi a calzarle, preferiva giocare scalzo e con le scarpe da ginnastica. I tacchetti poi se li faceva ridurre da una amico carpentiere o li sfregava lui stesso sul cemento per consumarli un po’.
Tacchetti e artisti non vanno d’accordo. I tacchetti sono indispensabili per mantenere l’equilibrio sul terreno di gioco ma limitano un po’ la sensibilità del tocco di palla. Evaristo Beccalossi quando il suo allenatore Bersellini gli chiedeva di fargli vedere i tacchetti di alluminio, che negli anni Settanta e Ottanta si usavano spesso, apriva la mano e glieli mostrava ma poi nella suola degli scarpini avvitava quelli di gomma. Alviero Chiorri, un altro mancino magico ma meno conosciuto, quelli di alluminio li usava solo nella scarpa destra. Sembra che con i tacchetti e i con i campi odierni il problema sia sparito.
Gli amanti del football bonarense non saranno daccordo, ma il calcio rosarino forse ha davvero un fascino particolare. Per Valdano, Rosario “è un modo estremo di essere argentino”. Di Rosario sono Marcelo Bielsa, un allenatore appassionato e affascinante, e Mario Alberto Kempes. Di Rosario è anche Luis Cesar Menotti, che ha il dubbio onore di aver diretto la nazionale argentina nel campionato mondiale del 1978 sotto la dittatura militare. Ma Menotti à anche un amante competente del calcio argentino. Ne ha difeso e esaltato le possibilità tecniche e l’eccellenza stilistica contro una certa tradizione che lo vuole legato alla furbizia e alla durezza. Menotti e Bilardo sono nemici inconciliabili. Quando allenava la Sampdoria, a Genova, a un giornalista rivelò che “a noi argentini piacciono i giocatori italiani perché ci ricordano i nostri”.
Un giorno disse che il Trinche era un classico prodotto del calcio rosarino; cioé di un calcio più incline al dribbling, la “gambeta” in argentino; di un calcio piú tecnico e “più lento”.
Sì, perché la lentezza, in certe circostanze, non è un difetto ma un attributo della tecnica, un’espressione del dominio del gioco, della visione e dell’eleganza. La lentezza è la misura estrema dell’efficacia e della bellezza.
Un pianista, James Rhodes, ha rivelato che il suo professore un giorno gli disse che se voleva scoprire se uno fosse un buon musicista gli doveva chiedere di suonare un adagio di Mozart. Perché è molto piú difficile suonare un brano lento che uno rapido al piano. Perché, dice Rhodes, un brano lento, tenero e bello è un mondo completamente differente, dove importano la chiarezza e il peso della melodia, la finezza della mano sinistra che lo accompagna, l’equilibrio degli accordi dove ogni pulsazione segna una differenza di peso minuscola e indipendente: così fragile che due grammi addizionali di pressione con un dito possono distruggere tutto.
La lentezza ha lo stesso fascino e la stessa complicazione della semplicità. La fluidità di un gesto può sembrare frutto della spontaneità. Ma quando si ripete, incontrando la soluzione più utile nelle circostanze più impreviste, indica una intenzionalità che solo il talento rende possibile. Nel calcio la lentezza del gesto diventa artistica quando esprime la rapidità dell’intuizione, quando è sostenuta dalla velocità dell’ipotesi che disegna il pensiero.
Chi ha visto giocare Mario Corso, un altro meraviglioso mancino e per di più attaccante, può averne un’idea abbastanza precisa. C’è chi, come Gianni Brera, ha ironizzato sul suo cognome, sottolineadolo come “participio passato del verbo correre”. Certo, correre non gli piaceva molto ma il suo genio consisteva, oltre al suo tocco di palla morbidissimo, proprio nel sorprendere e superare avversari più veloci di lui.
Solo un elevato dominio del movimento del corpo e della sfera permette di muoversi in uno spazio ristretto, col petto oltre l’asse del pallone, oscillando, immaginando gli spiragli in cui si può passare, in una danza che accoglie e provoca il controtempo affanoso e quindi il ritardo di uno o più avversari. Se pensiamo a Andrés Iniesta troviamo uno dei migliori esempi contemporanei del disegno improvvisato di queste linee.
Nel calcio non si corre, o non si correva, come in una pista di atletica. La velocità si plasma nel tempo e nelle pause, si misura con la palla al piede e, soprattutto, si misura con la velocità del pensiero e della palla più che con la velocità delle persone. Occorre quindi la varietà della tecnica, la sapienza della visione e il controllo dei tempi.
Sembra che Carlovich possedesse tutte queste virtù a un livello assai alto. Il racconto di un’azione, di un passaggio, di un dribbling o di un goal coinvolge in una relazione speciale chi narra e chi ascolta: il tempo si dilata e arriva persino a bloccarsi; lo spazio diventa piú prossimo, più stretto o più vasto; il movimento del corpo che scatta, fa una finta o salta si immagina come proprio; il lancio, il passaggio o il tiro si vedono con maggiore precisione perché siamo noi che ci immaginiamo di eseguirli, è il nostro piede ad aderire alla palla, bloccandola, accarezzandola o colpendola.
Chi ha giocato al calcio o ne vive la passione conosce il piacere unico di una azione o di una partita raccontata, magari anche esagerando un po’.
Può essere la finale di un mondiale ma anche una partita assai meno famosa ma per noi non meno importante. Così anche due squadre giovanili o amatoriali possono competere nella nostra immaginazione con l’Inter di Suarez o il Real Madrid di Di Stefano, con l’Ayax di Crujff o il Bayern Munich di Beckenbauer.
Fine della prima parte…
Rocco Rossetti