E’ morto a 77 anni uno dei più grandi personaggi della storia del basket Nba anche se probabilmente non lo avete mai sentito nominare: si chiamava Jerry Krause. E’ stato il general manager e architetto dei Chicago Bulls di Michael Jordan che hanno vinto 6 titoli tra il 1991 e il 1998. Sarebbero stati di più se MJ non si fosse ritirato nel 1993 per poi riapparire nel 1995, ma troppo tardi per conquistare il titolo di quell’anno. Facile vincere con Jordan? Forse, ma Krause, alto 1.65, sovrappeso, ruvido, scostante, è stato forse il solo a non aver paura di competere e opporsi al più grande giocatore del mondo. Una volta disse: “Tutti gli baciano i piedi, solo io e i suoi genitori lo prendiamo a calci in culo”. Jordan lo odiava. E anche con Phil Jackson, che Krause pescò nelle leghe minori quasi deciso a lasciar perdere la carriera di allenatore per poi affidargli la squadra più forte del mondo, finì malissimo. Molti hanno considerato Krause fondamentalmente un pazzo paranoico. Era un maniaco della segretezza, cosa che lo rendeva perfetto per quella che era stata la sua carriera di tutta una vita, nel baseball e nel basket, quella di scout, osservatore per i club professionistici. Aveva un occhio particolare per scoprire il talento degli atleti, e se Jordan lo ereditò dal g.m. precedente (arrivò ai Bulls nel 1985 mentre lavorava come osservatore dei White Sox di baseball che avevano lo stesso proprietario), gli costruì attorno un meccanismo perfetto per sostenerlo, soprattutto scegliendo Scottie Pippen da un college semisconosciuto, in due differenti cicli. E mettendo tutto in mano a Phil Jackson che convinse MJ del fatto che, per vincere, anche il più forte del mondo debba fidarsi dei propri compagni, elevandone il gioco e non oscurandoli. Nel suo ufficio al Berto Center, il campo di allenamento dei Bulls, Krause aveva un cartello appeso al muro che diceva: “Ascolta tutti, guarda tutto, non dire niente” massima attribuita all’ammiraglio Canaris, capo dello spionaggio nazista. Il che fa specie pensando che era ebreo (aveva cambiato il cognome del padre, Karbofsky). Entrò in rotta con Jordan fin dalla sua prima stagione, nella quale MJ subì l’unico grave infortunio della carriera. Due mondi opposti: il credo di Krause era che fosse l’organizzazione, il club e chi lo dirigeva, cioè lui, la cosa fondamentale per vincere. Jordan che fossero i giocatori. Jackson, che per molti anni era stato in buoni rapporti col g.m., entrò in collisione con lui negli ultimi due anni ai Bulls, quando ebbe la chiara impressione che Krause lo stesse per scaricare. Anzi, più che dargli l’impressione, una volta gli disse: “Non mi importa se quest’anno vinci tutte le partite, sei già (fucking) via”. L’estate del 1997 fu la più difficile, Krause voleva cambiare coach, ingaggiando il suo amico Tim Floyd che allenava Iowa, tutto il mondo e soprattutto Jordan, che altrimenti non avrebbe rifirmato il contratto, volevano Jackson. Per come era Krause, avrebbe fatto a meno pure del più grande giocatore di sempre… Ho avuto la fortuna di coprire le finali Nba del 1997 e 1998, quelle dove il mito di MJ raggiunse l’apice, e non credevo ai miei occhi. I Bulls lottavano per il titolo, il sesto, e ogni giorno, sui giornali, in tv, nelle interviste, Jordan e Jackson, con il supporto di molti giocatori (soprattutto Scottie Pippen, Ron Harper, i membri del Breakfast Club, che si allenavano ogni mattina privatamente con MJ prima di colazione) ne dicevano apertamente e di tutti i colori contro Krause, che si faceva vedere poco in giro. Ma durante i playoff mandò un suo scout in tribuna stampa per mettere sull’avviso i giornalisti sulla “doppia faccia” di Jackson (non che avesse tutti i torti). Aveva chiarissimo il concetto che la necessità assoluta dei Bulls fosse quella di ricostruire la squadra subito, prima che quel gruppo incredibile e un po’ folle, c’era anche Dennis Rodman, si consumasse trascinando Chicago negli abissi del rebuilding. Nessuno era però dalla sua parte, stampa compresa. Dire che i Bulls vinsero il titolo del 1998 contro Krause non è un eufemismo. Che, però, quell’estate andò davvero dritto per la sua strada, anche in contrasto col proprietario: scambiò Pippen con Portland e ingaggiò Floyd al posto di Jackson, cosa che rafforzò l’intenzione di Jordan di ritirarsi di nuovo. I grandi Bulls erano finiti, e nonostante Toni Kukoc, un’altra grande visione di Krause, non sarebbero mai più tornati. Stava succedendo quello che il g.m. aveva temuto: Chicago per sei stagioni non si mosse dal fondo della classifica, Jackson prendeva pubblicamente in giro il suo successore Floyd chiamandolo Pink, Jordan avrebbe ripreso ancora una volta a giocare, ma a Washington. Nel 2003, Krause divorzia dai Bulls: si rimette a fare lo scout e il consulente di squadre di baseball. Ha problemi di salute legati anche al sovrappeso, è sempre più solitario e introverso, dimenticato. Quando nel 2009 Michael Jordan viene eletto nella Hall of Fame, durante il suo discorso punta il dito verso Krause, presente in platea, dicendo: “Non so chi l’abbia invitato, non io. Lui era una persona molto competitiva, io anche. Lui diceva: “l’organizzazione vince i campionati”, io dico che i giocatori vincono i titoli. L’organizzazione ha dei meriti in questi successi ma non mettetela al di sopra dei giocatori. Voi ci pagate, ma in campo ci andiamo noi”. Ora Krause se n’è andato. Al grande giornalista e scrittore Rick Telander una volta disse: “voglio che sulla mia tomba venga scritto ‘qui giace il cuore e l’anima di uno scout’”.
Luca Chiabotti