“Piove sul bagnato” è un’espressione che, nel golf, vale poco, tante sono le occasioni in cui i contendenti devono esprimersi sotto piogge più o meno fitte.
Ma, nel caso specifico, piove davvero sul bagnato. In modo concreto, per le pessime previsioni metereologiche annunciate (e temute) per la più importante e famosa gara del golf, il Masters di Augusta del 6-9 aprile, l’unica delle quatto prove dello Slam che si disputa da sempre nella stessa sede, dal 1934. In modo figurato, perché l’argomento più discusso è sempre legato a Tiger Woods, a dispetto dei 41 anni, di dieci anni di digiuno negli Slam e del tragico numero 742 nella classifica mondiale.
E’ una sconfitta per tutti gli altri, dai giovani rampanti ai media, dai dirigenti agli appassionati. Significa che quel mondo si è fermato, quasi ad attendere il ritorno del messia: il figlio prediletto, il simbolo del talento e della potenza, il campione multirazziale, il fenomeno-icona che catalizzava tutto. In questo mondo virtuale, comanda un ricordo, il fantasma di un campione che non c’è più, evaporato con tutto quell’immenso carisma di magica sicurezza. Peggio: a differenza di un campione come Roger Federer che aveva fatto intuire di avere ancora in canna almeno un altro trionfo Slam, come ha dimostrato migliorando a gennaio a Melbourne il record assoluto di 18 titoli Majors, Tiger non sarà più quello che il golf e lo sport vorrebbero. Eppure, nei giornali, nelle interviste, nelle tv, nelle domande di tutti il Fenomeno è ancora il protagonista assoluto, al di là della sua presenza o meno al Masters che ha lanciato il conto alla rovescia. Tutti sanno che, una volta cacciato dagli dei, Tiger è ormai costretto a convivere coi problemi problemi terreni, esattamente come uno di noi. E quindi a mostrarsi senza corazza: ingrassato, invecchiato, e anche stempiato, come gli fanno notare impietosamente alla tv. Parliamo pure di sacrilegio, lesa maestà, tradimento, pugnalata alle spalle che un tempo sarebbe stata impensabile, tanto erano forti il rispetto, l’ammirazione e la protezione di cui Eldrick Tont Woods, nato a Cypress, California, il 30 dicembre 1975, godeva a tutte le latitudini e le longitudini.
La caduta di Tiger dalle stelle alle stalle è uno dei simboli più eclatanti nel già ricco filone dei campioni caduti in disgrazia per colpe proprie. Rinfreschiamoci la memoria: esattamente venti anni fa, il Fenomeno si aggiudicava il primo di quattro Masters e di 14 Slam, iniziando la collezione-record: più giovane di sempre a siglare tutti i tornei dello Slam e 50 titoli sul Tour, numero 1 del mondo per più settimane (683, di cui addirittura 281 consecutive dal giugno 2005 all’ottobre 2010), più volte Giocatore PGA dell’anno (11), più volte primatista della classica dei premi (10 anni). Con due secondi posti, comunque storici: 14 Slam dietro al solo Jack Nicklaus (con 18), e 79 tornei PGA, dietro al mitico Sam Snead (con 82). Sembrava invincibile, era l’idolo delle folle e anche di tutti gli avversari, a parte forse il solo Lefty, il rivale – invidioso – Phil Mickelson. E, quando nel 2008 firmò gli Us Open, nessuno, proprio nessuno al mondo, avrebbe immaginato che la sua corsa nei tornei dell’immortalità sportiva si potesse interrompere lì. Invece, all’apice della sua superiorità di golf, tecnica e personalità, fu travolto in quel sfera privata così oscura, e quindi dalle sconvolgenti, insistite, innumerevoli, infedeltà coniugali, con donne sempre belle e bionde, proprio come la moglie che tutti gli invidiavano. Si bloccò, si rialzò, si rilanciò, aggiudicandosi l’Arnold Palmer Invitational nel marzo 2013, risalì anche al numero 1 del mondo, e rimase sul trono fino al maggio 2014. Quando però la schiena, dopo tutte le sollecitazioni di quel portentoso drive, fece crac, una, due volte, causandogli più danni dello scandalo, del divorzio, della condanna morale di tutti. E la classifica – il suo intoccabile regno – lo cacciò fuori dai primi 100 nel marzo 2015 e addirittura dai primi 500 nel maggio scorso.
Possibile che un giocatore così manifestamente e lungamente non più competitivo manchi comunque, e così tanto, al suo sport? Possibile che ottimi protagonisti come Dustin Johnson, Rory McIlroy e Jason Day – i primi tre oggi al comando del ranking – siano così lontani dal carisma di Tiger e meritino così meno attenzione? Sembra strano, ma è esattamente così. Forse il Fenomeno è stato anche favorito delle circostanze, dai tempi diversi, dall’essere stato un precursore del golf di potenza, dal fascino di quella divisa rosso-nera dell’ultimo giro con cui ipnotizzava gli avversari e lanciava incredibili rimonte, dall’incredibile fascino del personaggio che gli era stato cucito addosso anche dal terribile papà Eral, ex “Berretto verde” dell’esercito Usa. Ecco, il grande segreto di Tiger resta quello di essere stato in grado di nutrito dei sogni, come pochissimi altri grandi campioni: da Chamberlein a Magic Johnson, da Ali a Pelè, da Maradona a Senna, da Bolt a Federer, a Messi, ai nostri Tomba e Valentino Rossi. E così anche oggi, che in realtà non esiste più come il vero Tiger, va oltre una schiena ed una classifica a pezzi, le cicatrici del suo smisurato ego, e l’incapacità di “chiudere un giro senza dolore”, come dice lui, “da febbraio a Dubai”, quando ha gettato la spugna in gara. Del resto, è l’eroe sportivo dei poster nelle camerette dei sei dilettanti in gara quest’anno al Masters: quattro dei quali sono nati addirittura dopo il debutto di Tiger ad Augusta, nel 1995. Da lì in avanti, il Fenomeno, in 75 presenze nei Majors (senza contare la rinunce nel primo turno degli Us Open 1995), ha mancato il taglio solo 8 volte, siglando 37 piazzamenti fra i “top 10”. Tanto per capirsi, Rory McIlroy, il McEnroe del golf, l’erede in pectore del Fenomeno, l’unico come Tiger ad aggiudicarsi sia la Silver che la Gold Medal agli Open Championship, ha fallito il taglio in 28 Majors, collezionando 12 piazzamenti fra i top 10. E, fra i quattro Slam, ancora non può annoverare il Masters. Lì dove, invece Woods, ha disertato appena due volte in ventidue anni, perché il re era sempre il primo a ruggire nella “foresta del golf”, dall’alto delle 683 settimane complessive in vetta alla classifica, mentre, messi insieme, i dieci in gara al Masters di quest’anno che sono saliti al numero 1 ci sono rimasti, tutti insieme, 262 settimane.
“Ora è molto diverso di quando Tiger dominava, non so se vedremo altri domini decennali. Quello che ha realizzato in quel periodo è stato davvero eccezionale”, s’inchina McIlroy, cresciuto anche lui idolatrando il Fenomeno, anche lui fra quelli che stanno divorando il libro di Tiger sulla sua vittoria al Masters 1997. Quello che forse ravviva e ingigantisce ulteriormente il mistero sulla sua presenza ad Augusta 2017, a dispetto del nuovo, forzato, recentissimo, esilio sul Pga Tour del 2015 e 2016: “Sto provando tutto quel che posso per rientrare. Adoro questo torneo: significa così tanto per me e la mia vita, è stato il primo Major, quand’ero ancora studente di college, per me ha così tanta storia e significato… Adoro tornarci, ma devo arrivare a un punto dove mi sento abbastanza forte. E, al momento, non sono abbastanza in salute”.
Povero Tiger! Si può dire povero del primo atleta ogni sport ad aver guadagnato un miliardo di dollari? Sì, considerando l’orgoglio smisurato di un campione che è rientrato a dicembre alle Bahamas e sembrava in condizione dopo aver infilato 24 birdies ma, alla prima gara ufficiale, a Torrey Pines, ha perso subito fiducia fallendo il taglio. E, una settimana dopo, in Dubai, s’è ritirato, stravolto degli spasmi alla schiena, dopo un deprimente giro in 77, senza birdie, zoppicando visibilmente anche solo a camminare fra una buca e l’altra. E poi nascondendosi dai media dietro un certificato medico, per poi saltare l’Arnold Palmer Invitational, uno dei suoi tradizionali terreni di caccia, con otto successi, e lasciare la parola all’agente storico, Mark Steinberg, che l’accompagna dal 1998: “Non siamo nella situazione di poter nemmeno parlare del Masters, Tiger si sta curando, non è stata presa alcuna decisione sul futuro prossimo, in nessun senso, e quindi non sarebbe giusto dire che è in dubbio ad Augusta”.
Qualcuno sussurra che proprio questo Masters, dopo due rinunce negli ultimi tre anni e il fatto che non passa il taglio dal 2015, è “the last call”, l’ultima chiamata, anche per il più memorabile dei campioni del golf che non accetterebbe di essere un golfista qualunque dopo aver trionfato quattro volte nel Wimbledon del golf con nove piazzamenti fra i “top 10” in venti partecipazioni. Infatti il Fenomeno mette le mani avanti: “Se c’è un torneo dove è più facile per me tornare è proprio il Masters, perché conosco benissimo il percorso. Ma, al di là delle mie condizioni fisiche, oggi le mie priorità sono cambiate molto: mia figlia Sam di 9 anni e mio figlio Charlie di 8 dominano la mia vita. E penso che sia una cosa buona”. Chissà, magari anche lui ha chiesto aiuto a un guru come Novak Djokovic nel tennis…
VINCENZO MARTUCCI