Troppo. Fabio Fognini da Arma di Taggia, a un passo da Montecarlo, è troppo. Troppo tutto, per la prima tifosa, la sorella Fulvia, troppo bravo, per papà Fulvio che rivive nelle sue imprese anche se lo avrebbe preferito calciatore dell’Inter, troppo bello, per la moglie, la collega Flavia Pennetta, in dolce attesa del primogenito, a maggio, troppo discontinuo, anche per gli estimatori più convinti ed affezionati. Ma è anche troppo eccitante, troppo esaltante, troppo geniale, troppo unico, nella monotonia del tennis moderno – spezzata solo da Roger Federer -, quando completa con perizia e freddezza la magnifica transizione difesa-attacco e approfitta di gamba e cuore zoppi di Kei Nishikori, rovesciando i pronostici della classifica (n. 40 contro 4, dei due precedenti negativi, di un italiano mai arrivato in semifinale in un torneo Masters 1000 sul cemento, di lui stesso mai vincente ad alto livello lontano dalla terra, di un successo contro un top 5 che gli mancava dal terzo turno degli Us Open 2015 contro Rafa Nadal. L’avversario che ritroverà a Crandon Park per la rivincita di quel suo memorabile show talento e dedizione, conclusa per 6-4 al quinto set, oltre l’una del mattino di New York.
Fognini è troppo, perché gioca con troppa, apparente, sufficienza, e facilità, perché può trasformare un attimo dopo lo stesso identico colpo in un fantasmagorico vincente e in un tragicomico errore, perché può alternare dopo falli ad ace, perché può accendersi e diventare insuperabile ed ugualmente può spegnersi ed uscire dalla partita, regalandola senza apparente motivo all’avversario, perché può sostenere l’urto di una tribuna di coppa Davis in fiamme, in campo avverso, e poi cadere nella trappola di una protesta dell’avversario con l’arbitro, perché può trovare geometrie assolutamente perfette e un attimo dopo smanacciare da principiante le palle più innocue. Gli allenatori che gli si affiancano, dallo spagnolo José Perlas all’argentino Franco Davin, allenatori con curriculum e clienti importanti, sono sempre ugualmente convinti della sua caratura da “top 10”, ma si trovano sempre a decifrare i terrificanti alti e bassi di quell’io fanciullesco, allegro, ironico, sprezzante, autolesionistico, folle che alberga in Fabio. Che, lo ripetiamo per l’ennesima volta avendolo conosciuto bene, appena mette piede fuori dal campo di gioco (di tennis come di calcio), è un fantastico ragazzo, generoso e gentile, e invece quand’è impegnato nella lotta, fors’anche per timidezza, ha reazioni spesso incomprensibili e negative.
A lui, comunque, il tennis italiano deve alcune delle più grandi soddisfazioni degli ultimi anni, con tutto il rispetto per i ben più concreti e continui Andreas Seppi e Paolo Lorenzi, e per lo sfortunato Simone Bolelli. Al di là dei fantastici lampi, anche con la maglia azzurra di coppa Davis, gara che l’esalta e sembra fatta apposta per lui (Oddio, speriamo non ci smentisca già la prossima settimana in Belgio: con lui non si sa mai…), gli appassionati gli devono la meravigliosa sensazione di tener vivi i sogni. Caratteristica solo dei campioni più amati, da Tomba a Del Piero, da Valentino Rossi alla Pellegrini, quelli che non sono mai vinti e possono sempre ribaltare il risultato con un colpo d’ala del loro straordinario talento naturale. Ecco, questo è anche Fabio Fognini, al di là della classifica, visto che è arrivato al massimo al numero 13 del mondo, il 31 marzo 2014, prima di andare in corto circuito a Montecarlo contro Tsonga quasi che, nel suo io più profondo, non volesse proprio compiere quell’ultimo passo ed entrare nei famosi “top ten”. Dove il tennis maschile italiano è assente addirittura dagli anni 70 con Panatta (4) e Barazzutti (7). Negli Slam, ha toccato appena i quarti, al Roland Garros 2011, e solo una volta, così come, nei tornei Masters 1000, s’è appena guadagnato la seconda semifinale, soltanto a 29 anni. Non ha continuità, non la possiede già nell’arco di un game e di un set, figurati di un partita o di un torneo, impresa che gli è successa soltanto nelle tre magiche settimane dell’estate 2013, quando vinse Stoccarda e Amburgo, e si fermò in finale ad Umago.
Questo è Fabio, prendere o lasciare. Ma, comunque, resta troppo, perché al di là di certe reazioni scomposte – che nel tempo ha limitato sempre di più -, è anche un personaggio simpatico, fotogenico, con un bel sorriso coinvolgente, che sa deliziare il pubblico con palle corte, pallonetti e volée, e sa sorprendere come quando saluta la sua Flavia, a casa, in Italia, scrivendo sulla telecamera: “Nina, non torno più”, dopo questa lunga trasferta in nord America. Lasciate vivere a Fabio, eterno Peter Pan, il suo sogno americano. Del resto, la consorte ha vissuto proprio negli States i suoi momenti più importanti. Tennistici, perché ha sfatato il tabù nei Premier Mandatory conquistando Indian Wells 2014, battendo in finale Agnieszka Radwanska, e perché ha trionfato agli Us Open 2015 per chiudere la carriera in un modo davvero insperato. Ma anche personali, perché proprio a Indian Wells l’amicizia con Fognini diventò la storia d’amore che li ha portati all’altare e presto ad avere insieme un bambino. Ecco perché Fabio ha un motivo in più per continuare a sognare anche lui, sul cemento americano, nella sua rincorsa al miglior tennista della famiglia, e a far sognare ancora un po’ anche noi appassionati. Al di là del nome dell’avversario, Rafa Nadal, troppo arrabbiato, tropo a caccia di vendette. Troppo. Come Fognini.
VINCENZO MARTUCCI
(foto tratta dal sito www.sportface.it di Ray Giubilo)