L’ultimo caso risale a due giorni fa: Michael Scapin, un seconda e terza linea del Valsugana Rugby Padova, serie A (il terzo livello dopo Celtic League ed Eccellenza), è risultato positivo a un controllo antidoping per la positività al Clostebol metabolita, uno steroide anabolizzante derivato del testosterone. La società, che ha una sua carta etica (“Rispetto delle regole e delle persone, disciplina, lealtà, coraggio, spirito di squadra, correttezza e altruismo”), si è dichiarata “totalmente estranea alla vicenda”, ha confermato “ogni contrarietà all’assunzione di qualsiasi sostanza vietata dal regolamento antidoping, integratori non certificati compresi”, ma ha creduto “nella buona fede dell’atleta” e ha promesso di “fare al più presto assoluta chiarezza sulle dinamiche della vicenda”. Intanto in un comunicato ufficiale ha già spiegato che il Clostebol si trova “in una crema per uso esterno, farmaco da banco, acquistabile in farmacia e utilizzata per guarire le escoriazioni”.
Ignoranza, leggerezza, negligenza? Scapin – 26 anni, un metro e 90 per 100 chili – non sarà un dopato, ma ha usato un farmaco nella lista dei prodotti doping. Consapevolmente o no, si saprà, forse, chissà. Sospeso in via cautelare, sarà giudicato. Chi lo conosce, giura che si tratti di niente, un errore, una scemata, un caso minimo diventato un peso massimo. Ma così è successo, così succede anche per circostanze ben più gravi, e non solo nello sport.
Il caso Scapin riporta l’attenzione sul doping nel rugby. Che c’è. Non tanto nel caso, clamoroso, di quel giocatore – Davide Vasta, dell’Amatori Catania, serie B – che nel 2016, in un controllo a sorpresa, fu trovato positivo a 10 diversi anabolizzanti e a una sostanza assunta per contrastare l’effetto collaterale della crescita del seno. O al caso di un suo compagno di squadra – Alessio Scuderi – che, pochi giorni prima, era stato trovato positivo a quattro sostanze illecite, il che fa pensare a pratiche condivise. Ma alle dimensioni abnormi dei muscoli, alle squadrature della mascelle, alle misure gonfiate, XXL, dei giocatori ai massimi livelli, agli improvvisi potenziamenti non giustificati soltanto dagli allenamenti in palestra. Con federazioni internazionali e nazionali, club e medici complici nel nascondere l’evidenza della realtà. L’allarme è scattato lo scorso ottobre in Francia. Robins Tchale Watchou, presidente del sindacato dei rugbisti francesi, ha denunciato all’agenzia Reuters le pressioni psicologiche e fisiche cui sono sottoposti i giocatori, il largo uso e consumo di farmaci più o meno legali, il ricorso a dosi industriali di integratori, con le inevitabili complicazioni e dipendenze mentali, fino ad arrivare a tentativi di suicidio. Una situazione e un clima emersi anche nel film “Mercenaire”, l’opera di esordio del regista francese Sacha Wolff, presentato al Festival di Cannes nel 2016: la storia di un rugbista di Wallis and Futuna, un’isola del Pacifico del sud, che va a giocare in Francia, e deve affrontare anche il problema – morale, fisico, economico – del doping.
E così è. Due anni fa il quotidiano inglese “Telegraph” sosteneva che in Inghilterra il rugby a XV era uno sporco affare e che il problema del doping stava ingigantendosi, e un altro quotidiano, “The Guardian”, si chiedeva quanti giocatori rugbisti facessero uso di steroidi e si rispondeva chiedendosi quanti giocatori di rugby non facessero uso di steroidi. In Francia lo scorso anno furono trovati positivi i neozelandesi Dan Carter e Joe Rokocoko e l’argentino Juan Imhoff, tutti e tre del Tolone, tutti e tre positivi ai corticosteroidi, e un paio di mesi più tardi altri due giocatori dello stesso club, i francesi Brice Dulin e Yannick Nyanga, positivi alla molecola Higénamine, vasodilatatore e cardiotonico. Segno di un permissivismo, e forse di una immunità, almeno fino a quel punto, molto sospetta. L’impressione è che il permissivismo illegale ai più alti livelli si traduca poi in abitudini incoscienti ai livelli anche più bassi. Con conseguenze ancora da valutare, perché non esistono certezze. E la morte del tongano Sione Lauaki, 35 anni, giocatore dei Chiefs e degli All Blacks, è stata vissuta come uno shock: cinque anni fa, mentre giocava in Francia per Bayonne, cominciò ad avere disturbi renali e cardiaci, poi risultati letali.
Fatalità? Coincidenze? La storia dello sport, e del doping, insegna a non illudersi. E impone di non abbassare la guardia.
Marco Pastonesi