David Ferrer, capitano non giocatore della squadra spagnola di Coppa Davis, si è espresso molto positivamente sull’opportunità di convocare Rafa Nadal per le Finals di Malaga, ultimo evento del corposo calendario della stagione tennistica, in programma la terza settimana di novembre. Rafa giocherebbe da secondo singolarista, perché “in una partita secca può essere ancora imbattibile”, secondo il capitano iberico. L’Italia di Filippo Volandri cercherà di difendere il titolo dell’anno scorso, il secondo della storia azzurra in Davis dopo quello cileno del 1976, ma dovrà vedersela con squadre molto quotate, in primis proprio la Spagna di Alcaraz e Nadal.
La figura del 22 volte vincitore Slam aleggia nella mente di Ferru. Vista la condizione fisica così precaria, o Rafa non gioca perché non si sente al 100% oppure il capitano lo schiera subito, sicuro di contare su un Nadal prontissimo. A quel punto, magari proprio nell’eventuale finale, se si vince, avrà vinto Nadal, se si perde, avrà perso Ferrer. Con i campionissimi è sempre stato così. Gli allenatori che hanno dovuto gestire questa delicata situazione ne sono usciti bene solo dopo aver accettato un ruolo da comprimari o poco più.
Gigi Simoni, rimpianto gentiluomo del nostro calcio, schierando nell’Inter in ogni situazione il miglior Ronaldo di sempre (parliamo del Fenomeno, naturalmente), ha perso il più discusso e controverso degli scudetti a vantaggio della Juventus, ma ha anche vinto la Coppa Uefa della stessa stagione (1997-98) demolendo in finale la Lazio di patron Cragnotti (una squadra piena di grandi giocatori, che due anni dopo si sarebbe laureata campione d’Italia). Anche Severin Luthi, capitano della Svizzera di Coppa Davis, non commise nessuna follia con due campioni come Federer e Wawrinka, centrando con loro la prima e unica Coppa Davis della Confederazione elvetica. Facilissimo obiettare: “Eh ma con quei due non poteva non vincerla”, ma Luthi può sempre rispondere: “Intanto io l’ho vinta, chi pensa di riuscirci ancora si faccia avanti”.
Quando invece a remare nella stessa barca ci sono non una ma due prime donne, si parte già battuti.
Marcello Lippi, successivamente grande condottiero dell’Italia Campione del Mondo nel 2006, non riuscì proprio a gestire Roberto Baggio all’Inter, relegandolo spesso in panchina con conseguenti risultati negativi. Anche di fronte al gol di Roberto contro il Parma, decisivo per disputare lo spareggio di qualificazione alla Champions League dell’anno seguente, l’allenatore viareggino non fece sconti. All’esplicita domanda sulla prestazione del grande campione, rispose gelido: “Abbiamo fatto una grande partita”, senza nessun riferimento all’autore del gol che aveva salvato l’Inter.
Non si può certo dare della prima donna a Cesare Maldini, grande difensore e capitano del Milan a cavallo degli anni ’50 e ’60 e poi CT tre volte di fila campione europeo con la Nazionale Under 21. Nessun malumore tra lui e Baggio, ma la riluttanza a schierarlo titolare, preferendogli Alex Del Piero in numerose occasioni, gli costò moltissimo. Ai Mondiali di Francia ’98, nel quarto di finale contro i padroni di casa, l’azzurro entrò molto tardi (invocato goffamente anche da un tifoso seduto appena sopra la panchina di Maldini con una frase epica: “Ma fa entrà Baggio!”), ma fu proprio lui ad avere la migliore occasione di beffare i galletti, sfiorando con un tiro a giro l’incrocio dei pali.
È così da sempre, l’allenatore o il capo spedizione deve sapersi fare da parte. Andando giusto un attimo indietro nel tempo, passando a un altro sport meno glamour del calcio o del tennis ma decisamente più… epico, anche il CT della Grecia Antica Agamennone non poteva accettare che si esaltassero le lodi del Pelide Achille, il migliore attaccante dell’epoca, dimenticandosi completamente di lui, il condottiero della trasferta di Troia, il derby dello Stretto con in palio la Coppa dei Dardanelli, ribattezzata dai tifosi Coppa di buonadonna Elena… Il capo acheo era arrivato a invidiare e odiare talmente tanto il bomber invincibile (l’unico suo difetto, proprio a trovarne uno, era il colpo di tacco) da sfilargli la massaggiatrice Briseide. Un inaudito abuso di potere. Al punto che il campione acheo decise di non scendere più in campo, ormai in guerra più con il suo allenatore che con i troiani.
Senza il loro miglior giocatore, i greci rischiavano di essere partiti per suonare ma tornare suonati. Anche dopo il suo rientro, il muro difensivo, anzi le Mura difensive di Troia continuavano a rendere la città-stato inespugnabile. Fino a quando Ulisse, autentico Andrea Pirlo ante litteram per visione di gioco e strategia, ma anche antico antenato di Luciano Moggi per la capacità di giocare al limite del regolamento, s’inventò la mossa del Cavallo: uno schema di gioco ai limiti dello sleale che vedeva l’attaccante in dubbio fuorigioco disinteressarsi dell’azione in quanto reo del fallo, per poi l’attimo successivo riprendere immediatamente, segnando quando la difesa troiana si era già fermata. Una slealtà clamorosa e decisiva per la vittoria achea, al punto che il troiano Enea, glorioso e leale guerriero scampato al massacro, se ne andò inorridito col figlioletto Ascanio per mano e il padre Anchise sulle spalle. Dietro di lui Troia in fiamme, davanti il sogno di diventare il fondatore di un grande popolo sulle coste del Lazio. Il mito però si mostra lui stesso prima donna, non avendo mai rivelato se sarebbe stato il popolo romanista o quello laziale…