Gli americani la chiamerebbero “The curse of the Nba”, la maledizione della Nba. Per chi non crede, o ritiene esagerate, queste superstizioni, chiamiamola coincidenza. Sono passati 10 anni dall’Europeo 2007 quando, per la
prima volta, la Nazionale italiana ha potuto finalmente schierare un giocatore Nba, Andrea Bargnani, e sono stati i… peggiori 10 anni della storia della nostra Nazionale per ciò che riguarda i risultati ottenuti. O, per non essere così catastrofici, l’arco temporale più lungo senza una medaglia dal 1971, una siccità che dura dall’Olimpiade del 2004, ad Atene. Da allora, non una qualificazione ai Giochi o a un Mondiale, persino una mancata partecipazione all’Europeo e un 17 posto… L’highlight è stato il sesto ottenuto nel 2015. Nel corso del decennio, intanto, il nostro Paese è riuscito a schierare anche quattro giocatori Nba nella stessa squadra, Marco Belinelli, Danilo Gallinari, Gigi Datome oltre a Bargnani. E’ stata la ragione per la quale il presidente della Fip, Gianni Petrucci, si sbilanciò presentando l’ultima Italia come la più forte di sempre. Sbagliandosi, evidentemente. Lo sport è fatto di cicli, anche il decennio precedente quello dei grandi trionfi iniziati con l’argento europeo del 1997, non fu brillante. Anzi venne vissuto quasi come catastrofico, pur portando un argento, un quarto e due quinti posti continentali, soprattutto per il trauma della mancata qualificazione ai Giochi, per la prima volta. Ma stavolta non ce lo aspettavamo, eravamo convinti che poter finalmente competere alla pari contro avversarie già ricche di giocatori Nba avrebbe potuto regalarci un posto nel ranking mondiale ben più alto. Invece, la generazione Nba potrebbe entrare nella storia come la meno vincente della nostra pallacanestro. Adesso, tra l’altro, si è ridotta ai soli Belinelli e Gallinari, senza grandi prospettive di nuovi innesti, dopo la stagione difficile di Alessandro Gentile. Nicolò Melli ha certamente suscitato l’interesse degli scout dopo la splendida Eurolega disputata ma è una scelta complicata per lui. Giovani all’altezza non ne abbiamo, nonostante il tour americano di Simone Fontecchio della scorsa estate e la volontà di Diego Flaccadori di rendersi eleggibile per il prossimo draft.
Chiariamo subito: la colpa dei cattivi risultati non solo dei giocatori Nba, ma di tutti. E’ già successo, soprattutto alle squadre di maggiore tradizione come la Jugoslavia, di perdere posizioni invece di acquistarne nel momento di maggiore commistione tra giocatori rimasti in Europa e quelli andati nella Nba. In questi casi, non esiste una regola se non quella dello sport: se hai dei campioni assoluti come Pau Gasol, Toni Parker e Dirk Nowitzki è più facile che ti vada bene. I nostri, pur bravissimi, non sono di quel livello né hanno la stessa personalità.
Quello di settembre sarà l’ultimo europeo Nba friendly. Poi comincerà una nuova formula che, attraverso qualificazioni durante la stagione alle quali i giocatori Nba non potranno partecipare, porterà ai Mondiali del 2019 che qualificheranno all’Olimpiade del 2020. Che il presidente Petrucci ha già dichiarato essere il nostro vero obiettivo. E’ plausibile ritenere che l’Europeo 2017 sarà l’ultima concreta possibilità, per la nostra generazione Nba, di sfatare “The Curse”. Non che le cose si stiano mettendo benissimo: Bargnani, lasciati i pro, è stato messo k.o. dagli infortuni, due europei chiave, come Daniel Hackett e Alessandro Gentile, hanno perso almeno metà stagione e Danilo Gallinari, che ha dichiarato sia che verrà sia che dubita di esserci all’Europeo, ha scelto la free agency e fino a quando non firmerà il nuovo mega-contratto, non potrà dare garanzie. Di certo, qualsiasi squadra riusciremo a schierare, nessuno di noi stavolta si sognerà di dire o scrivere che è la Nazionale più forte di sempre. Forte è chi vittorie ha, direbbe Forrest Gump.
Lasciando perdere le maledizioni, cosa potrebbe aver provocato questa siccità di risultati? Un paio di cose tra le molte: i nostri giocatori Nba, per caratteristiche tecniche o di personalità, non sono dei leader nati e solo Belinelli ha giocato da protagonista partite in squadre da playoff, vincendo un titolo a San Antonio. Bargnani e Gallinari, pur con cifre che in certe stagioni avrebbero meritato l’All Star Game, hanno vissuto pochissime partite veramente decisive, in America e anche in Europa. Motivo che ha condizionato anche chi nella Nba non c’è stato, visto che, contemporaneamente, anche le nostre squadre di club sono state spinte ai margini dell’Eurolega e che solo oggi, con Datome, Melli e Hackett che sono andati all’estero, potremmo superare. Poi c’è una questione di ruoli: nessuno è un playmaker o comunque un “piccolo” capace di risolvere le partite in uno contro uno (vi ricordate quando ci provammo chiamando Travis Diener?), una delle chiavi di molti successi dei nostri avversari. Il resto è banale: spesso, al gruppo è mancato qualcuno e se in dieci anni ti qualifichi e giochi solo a 4 grandi manifestazioni, poi è più facile bucarle rispetto a chi, come la Spagna, ne fa dieci. Insomma, un insieme di cose. Siamo sicuri che non sia “The curse of the Bambino” il motivo per cui i Red Sox non hanno vinto il titolo del baseball per 84 anni di fila dopo aver ceduto agli Yankees Babe Ruth, il Bambino appunto. Ma certo fa un po’ specie pensare che non siamo mai caduti così in basso come da quando abbiamo in Nazionale dei giocatori Nba. L’unica consolazione è che non dobbiamo considerarci già spacciati se, per colpa del nuovo calendario internazionale, d’ora in poi dovremo spesso farne a meno.
Luca Chiabotti