Sono passati 30 anni giusti, ma sembrano 100, tanto son cambiati i modi di vivere e, naturalmente, il calcio. Era la fine del campionato 1987 quando fui designato a succedere al leggendario Roberto Bortoluzzi alla guida di Tutto il Calcio Minuto per Minuto. Fu un punto di svolta importante nella mia carriera, cominciata 17 anni prima, nel gennaio del ’70, da ultimo dei collaboratori della redazione romana della Gazzetta dello Sport. In quanto ultimo (e non ancora ventenne), pagato 50 lire a riga pubblicata, venivo spedito dal capo, Michele Galdi, a coprire qualsiasi evento che non fosse il calcio, appannaggio esclusivo dei “grandi”. E perciò tutto: dal raccogliere semplicemente i tabellini del basket minore (spesso giocato ancora all’aperto) al sollevamento pesi, dall’hockey prato al ciclismo dilettantistico. E per fortuna, qualche volta, al mio adorato baseball, che avevo giocato in campionato fino all’anno prima.
Da lì aveva preso le mosse la mia storia professionale, passando per Il Giornale d’Italia e approdando, nel ’76 al GR-1 Rai, alla scuola di quell’impagabile direttore-maestro che è stato Sergio Zavoli.
Quando mi fu comunicata la designazione, provai un brivido. In Rai avevo fatto strada, fino a diventare capo della Redazione Sportiva, seguendo Mondiali ed Europei di Calcio (il primo, Argentina ’78), la coppa Davis di Tennis, le Olimpiadi. In più, mi ero letteralmente inventato nel ‘87 “Tuttobasket”, la trasmissione che applicava alla Pallacanestro il fortunato schema radiofonico del Calcio, in un’era pre-internet, pre-telefonini, pre pay-tv perfino pre-telefax in cui gli appassionati dovevano far le ore piccole davanti alla TV per apprendere dalla Domenica Sportiva i risultati delle partite. Avendola condotta per 10 anni, avevo maturato una gran bella esperienza nello studio centrale: nel basket, il risultato cambia sempre, distacchi anche vistosi possono svanire in un paio di minuti, i parziali dei campi non collegati erano ben più complicati, numericamente, di uno 0-0 o di un 2-1. Le spalle, perciò, me le sentivo forti. Ma erano il peso della trasmissione che avrei dovuto condurre e il prestigio del mio predecessore a trasmettere quel brivido.
Cominciamo da lui, Roberto Bortoluzzi. Da che nel ’60 era nato “Tutto il Calcio” non c’era stato altro conduttore. Quell’unica volta che, per ragioni di salute, era stato brevemente sostituito da Claudio Ferretti, s’era provato una specie di spaesamento. Perché la voce calda, la dizione perfetta, la calma inscalfibile di Roberto avevano improntato il tono di tutta la trasmissione, preceduta e seguita, come si ricorderà, dallo spot del Brandy Stock 84 che invitava a brindare o per festeggiare una vittoria, o per consolarsi da una sconfitta della squadra del cuore (sul pareggio, si restava nel vago). Perciò subentrargli dopo 27 anni di ininterrotta conduzione mi face sentire come un estraneo che, d’improvviso, si presentasse nelle case degli italiani. E qui veniamo al peso della trasmissione: Tutto il Calcio era allora, e non può più essere adesso, il vero rito laico domenicale di tutti gli appassionati. Perderselo era praticamente inconcepibile. Tanto è vero che, negli anni ’60, quella storica rubrica aveva fatto da traino alle vendite delle prime radio portatili (le radio a transistor) che finalmente consentivano di portare al parco i bambini o spupazzarsi la suocera per una malinconica passeggiata domenicale senza perdersi nulla delle vicende del campionato. Nulla (o quasi) perché il calcio importante c’era tutto nei racconti vibranti di Ameri e Ciotti, Ferretti e Provenzali, Foglianese e Luzzi e poi, man mano, degli allora giovani Gentili e Cucchi, Dotto e Raffa (tutti formatisi, tra l’altro, alla scuola di Tutto basket); e poi perché il Calcio era tutto lì, in quelle prime ore pomeridiane, in meravigliosa contemporanea senza anticipi, posticipi e spezzatini vari. Tutto accadeva in quelle due ore: nulla era successo prima, nulla sarebbe successo dopo.
L’avvicendarsi delle emozioni, scandite dalle interruzioni che i radiocronisti effettuavano in occasione di un gol sul racconto di un altro collega, era formidabile. Quando si sentivano gli effetti sonori di un altro campo irrompere in diretta c’era un attimo di sospensione per il cuore: e allora si cercava d’intuire subito identificando il radiocronista quale fosse il campo della novità, se riguardasse la propria squadra o una rivale il cui risultato, specie nelle ultime giornate, contava tanto quanto. Un accavallarsi di emozioni che nessuno, veramente nessuno che fosse sinceramente appassionato di calcio poteva sognarsi di perdere.
E capirete perciò che prendere in mano, a 37anni, le redini di una trasmissione-mito poteva far correre un brivido lungo la schiena. Anche perché, poi, c’erano “loro”, i vecchi leoni della radio sportiva, che bisognava gestire col rispetto e il garbo dovuto, ma anche, se necessario, con fermezza. E non era facile: fuoriclasse come Ameri e Ciotti, Ferretti e Provenzali, che hanno scritto la storia di quel programma, erano abituati al rigido rispetto della gerarchia dei campi cui Bortoluzzi si atteneva. Da parte mia, abituato ai continui cambiamenti di situazione del basket, introdussi invece una differente elasticità legata all’interesse del momento, che poteva far diventare campo centrale una partita che alla vigilia era sembrata meno interessante. E nessuno accetta mai volentieri un pur momentaneo declassamento.
Del resto, avevo richiesto io l’installazione nello studio centrale di Corso Sempione a Milano (da dove allora e per molti anni ancora originava la messa in onda) di due monitor per poter seguire in bassa frequenza almeno le partite principali. Bortoluzzi, invece, preferiva il totale isolamento, affidandosi soltanto agli inviati e ricevendo informazioni sui campi non collegati tramite “pizzini”. E infatti anche quando chiesi, fin dalla prima puntata, l’installazione di un interfonico di comunicazione-studio-regia (dove agiva, utilissimo, un giovane neo-assunto di nome Marco Civoli) fui guardato quasi con sospetto. Sarebbero diventati presto quattro, i monitor, e fu grazie ad uno di essi, ad esempio, che mi accorsi di come, in Atalanta-Napoli del 1990, Alemao era stato sostituito non per scelta tecnica ma perché raggiunto da una monetina (anche se le telecamere avevano inquadrato un accendino). Dovetti mettere in campo tutta la possibile diplomazia per aggiungere quell’elemento alla cronaca di Sandro Ciotti che, del resto, dall’alto della sua postazione, sprovvista di monitor, non se ne sarebbe mai potuto accorgere. E invece di quell’episodio, decisivo per la conquista del secondo scudetto del Napoli, si parla ancora oggi. E nessun altro, se non Tutto il Calcio Minuto per Minuto, avrebbe potuto, in quel momento, dare conto della situazione che avrebbe determinato la vittoria a tavolino di Maradona & c.
Questo era, e non può essere più, “Tutto il Calcio”. Questo era e non può essere più il calcio italiano, che si è consegnato integralmente nelle mani delle televisioni mentre altre nazioni, come ad esempio l’Inghilterra, hanno tuttoggi la forza contrattuale per impedire che gli abbonamenti-pay prevedano la trasmissione di tutte le partite di ogni singola squadra della Premier League.
Lo so che può essere anacronistico rimpiangerlo, perché i tempi sono cambiati e in tutto il mondo. Però almeno dire che così era molto più bello si potrà. O no?
Massimo De Luca
- Romano, 67 anni, già conduttore di “Tutto il calcio minuto per
- minuto” alla Rai, ha presentato anche “La Domenica Sportiva”, oggi è direttore di “Il Mondo del golf today