Con la scomparsa di Mario De Sisti, il basket italiano ha probabilmente perso il suo ultimo “inventore”. La pallacanestro è stata fino alla fine degli anni 60’ un sport autoctono, in Italia.
Si era avvalsa, nel primo dopoguerra, degli insegnamenti di Van Zandt , un sergente americano di colore che era rimasto nel nostro Paese ad insegnare il gioco fino a diventare coach della Nazionale Italiana. Dalla sua scuola di fondamentali si era poi sviluppata una generazione di allenatori che, pur privi di contatti con l’America, grande madre di questo sport, tuttavia si erano ingegnati a strutturare una tecnica italiana che avrebbe operato la trasformazione della pallacanestro in “Basket” fino a farci primeggiare in Europa. Questo processo fu favorito dalla Federazione e dai clinic organizzati ogni estate con i grandi santoni americani dell’epoca, inquadrati nella rigida struttura federale del tempo. Il Commissario Tecnico, oltre ad allenare la squadra nazionale, in quegli anni di forte divulgazione del gioco, era anche il custode supremo dell’ortodossia tecnica che veniva inculcata pedissequamente nei corsi allenatori di ogni livello. Il CT era praticamente il solo ad avere la possibilità di abbeverarsi alla fonte del basket americano di college, incessante fucina di novità tecniche. Lo stesso CT Giancarlo Primo, seguace delle teorie di Bobby Knight di Indiana University, aveva mutuato un’organizzazione difensiva chiamata “Help” nella quale il difensore in “Uno contro Uno” indirizzava l’attaccante in una zona del campo dove poteva essere aiutato dal contenimento del difensore più vicino all’azione. La difesa funzionò a tal punto che divenne famosa e copiata in tutta Europa. Un anno, Primo inviò a Indiana il suo assistente Dido Guerrieri per aggiornarsi sulle ultime novità tecniche. Dido osservò e vide che Bobby Knight era passato dalla difesa “Help” alla difesa “Help and Recover” nella quale il difensore d’aiuto che prima abbandonava il proprio attaccante per frenare l’uomo con palla, ora invece con uno speciale scivolamento a fisarmonica mentre aiutava contro il portatore di palla, una volta arginato l’1c1 (l’uno contro uno), da difensore in aiuto tornava rapidamente sul proprio avversario, ottenendo una copertura difensiva assai più solida della precedente. Entusiasta, Dido, non appena sbarcato a Fiumicino, si precipita nell’ufficio di Primo per annunciare quell’ingegnoso upgrade difensivo. Primo lo ascolta attentamente. Scuote la testa, alza il dito indice verso il suo costernato assistente e stentoreo gli lancia questo ammonimento: “ Non farai parola ad alcuno di quello che hai visto. Gli allenatori italiani non sono ancora pronti a questo cambiamento!”
Nonostante questo clima Goebelliano, da Capo della Propaganda del terzo Reich, perfetto per inquadrare lo stato nascente del basket moderno, gli allenatori italiani trovarono modo di personalizzare il loro basket con un alto grado di creatività se rapportato all’omologazione tecnica di oggi. Con l’introduzione dello straniero, durante l’estate, dovettero giocoforza alzare le chiappe dalle sedie a sdraio degli stabilimenti balneari e varcare l’Oceano per prendere visione dei loro futuri giocatori stranieri. Li osservavano nei tornei estivi che l’NBA organizzava per il reclutamento e con essi venivano a conoscenza di nuove tecniche di attacco e di difesa che Giancarlo Primo non gli avrebbe mai consentito di scoprire. Tornavano in patria e mettevano in pratica i nuovi sistemi di gioco, alcuni pedissequamente, altri adattandoli alla propria visione personale del gioco, ma tutti rimanendo in sostanza dentro le mode che si alternavano al seguito delle teorie dei santoni americani del college. Tutti, tranne Mario De Sisti.
Mario De Sisti usciva da qualsiasi schema sia nello sport che nella vita. Chiamato in servizio militare con l’Aeronautica come allenatore della squadra delle Forze Armate che militava nel secondo campionato nazionale, non
aveva mai indossato la divisa di aviere neanche per un giorno durante tutta la “ferma”. Un mattino che non faceva allenamento, si infilò in un buco nella rete di contenimento della base militare e andò, come si dice, “in fuga” nella capitale. Penserete che il soldatino in incognito, attirato dalle bellezze della città eterna volesse spassarsela i luoghi ameni. Vi sbagliate. Appena arrivato a Termini, Mario imbocca Castro Pretorio e si dirige baldanzoso verso il Ministero Dell’Aeronautica. Dice alla guardia che ha appuntamento col Colonnello Picchiottini. Sale fino al suo ufficio, entra e si mette sull’attenti, nonostante sia in jeans e maglietta, fa il saluto ed esclama: “ Agli ordini signor comandante”. Il Colonnello trasecolato sbotta con un: “ Che c… fai al Ministero a quest’ora, dovresti essere in caserma!” E Mario candido, nella sua perenne innocenza, scoppia nella sua leggendaria e fragorosa risata e risponde: “Sono in fuga, Comandante!”
Fu una giornata nerissima per il Capitano Marinangeli che comandava a Vigna di Valle il Gruppo Sportivo, perché sentì squillare il telefono e poiché dall’altro capo del filo parlava il Colonnello Picchiottini, subito si alzò in piedi battendo i tacchi e cominciando a sudare freddo quando Picchiottini gli intimò di far venire De Sisti al telefono per comunicazioni importanti da parte del Ministero, mentre, ovviamente, Mario era in piedi davanti alla scrivania di Picchiottini.
Ora, da un tipo del genere ci si potrebbe aspettare che De Sisti fosse un coach di matrice sudamericana: briglie sciolte ai giocatori e la fantasia al potere. Mario fu tutto l’opposto. Delle mode americane prendeva conoscenza senza curarsene più di tanto, mentre il suo cerebro era in continua ebollizione su nuove idee di attacco, nuovi congegni difensivi, nuovi meccanismi di gioco che Mario analizzava come un entomologo, aggiungendo improvvise illuminazioni che potevano capitargli in ogni momento della sua giornata. Se si era al ristorante, potevi star sicuro che avresti dovuto reperire tovaglioli di carta su tavoli vicini per consentire a Mario di completare una Cappella Sistina di schemi che uscivano irrefrenabili dalla sua mente. Se gli sottoponevi un gioco che aveva suscitato il tuo interesse, subito Mario lo completava in modo che sarebbe stato perfetto per i tuoi giocatori, molto meglio di quanto potessi fare tu che eri il loro allenatore. Come tutti i geni, Mario ebbe enormi difficoltà a confrontarsi con la banalità del basket delle mode. Soprattutto ebbe difficoltà a convincere i giocatori e spesso i dirigenti della bontà delle proprie intuizioni. Questo gli procurò non poche amarezze ma anche grandi gioie quando la sua visione del basket venne condivisa. Ed ebbe la sorte della maggior parte degli allenatori, quella di navigare sempre a vista nel basket italiano che ridusse di anno in anno il respiro dell’Alto Mare per ridursi a galleggiare sotto costa, bordesando, bordesando.
Oggi che la globalizzazione in basso ha omologato il modo di giocare della maggior parte delle squadre, il basket italiano illumina ancora il mondo con i suoi allenatori all’estero. Bene, Mario è come se fosse sempre vissuto all’estero, perché, fedele a se stesso, non aveva mai lasciato quella nuvola beata che il suo genio nel basket gli aveva assegnato, molti, molti metri al disopra di tutti i suoi colleghi.
Valerio Bianchini