Le Mans non è una pista ma un’icona. La nomini in qualsiasi parte del mondo è immediatamente si irradia l’immagine della velocità (clicca qui per vedre la bellissima gallery fotografica by Nikon). Merito della sua incredibile storia, che fa dimenticare la pochezza del suo tracciato, prima curva a parte, una “pistina” senza sapore. Invece domenica i 4000 e spicci metri dell’ultimo giro del GP di Francia l’hanno trasformata in un moderno Colosseo dove in ballo non c’era una coppa, i 25 punti e tutto quello che si porta dietro una vittoria.
Era la lotta tra due gladiatori, non casualmente “compagni di squadra”, non per nulla rappresentanti di mondi diversi: il vecchio contro il nuovo o viceversa. Quello che tutti gli appassionati – meno i tifosi, se poi non va come vogliono loro – si aspettano per sublimare una gara di moto. Le cronache hanno raccontato di un Valentino Rossi che è arrivato lungo alla curva 8, è stato passato da Maverick Viñales e tre curve dopo, alla penultima occasione utile per l’attacco estremo, fa scivolare i sogni nella via di fuga.
In realtà c’era in ballo il controllo del territorio, in squadra, nel paddock, nel campionato, dove Valentino per bravura e un pizzico di fortuna era in testa in quel momento. Soprattutto c’era in ballo il piacere di battere quello che (oggi possiamo dire a ragione) viene considerato il nuovo fenomeno delle due ruote. Rossi si nutre di questa sensazione che anima i grandi cannibali dello sport e che noi comuni mortali possiamo soltanto provare ad immaginare.
Per fare (forse) capire come funziona la sua mente un episodio di qualche anno fa. Si parlava di futuro, di giovani piloti e Valentino disse questa frase chiave della sua assoluta, inappagabile, fame di vittoria. “Se vorrei lavorare con i giovani? Non so, forse mi piacerebbe correre contro mio fratello (Luca Marini, n.d.a.). Anzi lo vorrei battere (in effetti usò un verbo ben più crudo, n.d.a.) e poi ritirarmi”. Tra lui e quel gusto non ci sono avversari, non ci sono amici, non può esserci nemmeno un fratello.
Tornando allora a quei 4000 e spicci metri pieni di storia, il quadro è molto semplice. Viñales non poteva vincere, non doveva. Almeno non senza mettere nel Colosseo tutto quello che aveva. Rossi ha imparato a conoscere lo spagnolo e sapeva che avendolo alle calcagna ci avrebbe provato. E si è fatto prendere dalla frenesia. Quando si è al limite non hai certezze: ti sembra sempre di poterlo portarlo più avanti, ma a quei livelli stratosferici basta un centimetro per scivolare all’inferno. E quella curva 8, doppia destra in discesa lo è stato. Allargare di due metri ha significato venire sbranato dall’avversario. L’errore di Valentino è stato quello.
La scivolata, dopo 3 curve è stata la logica conseguenza. I soliti commentatori che la sanno lunga dicono “solo Valentino ci avrebbe provato invece di accontentarsi”. Sciocchezza colossale. Qualunque pilota, dal supercampione alla schiappa più poderosa, se ha un’ultima possibilità di guadagnare anche mezza posizione ci prova. L’esempio? Quasi contemporaneamente a molti chilometri di distanza i ragazzini del Civ Moto3, il campionato italiano delle giovani promesse, si stavano giocando il podio all’ultima curva: Anthony Groppi e Tommaso Marcon (19 e 17 anni) si sono toccati e buttati a terra per conquistare il secondo o terzo posto. E sono compagni di squadra. Valentino “doveva” farlo e giustamente lo ha fatto, anche se di anni ne ha 38 e esperienza a vagonate.
Il fatto che il gladiatore italiano sia uscito sconfitto dal Colosseo francese esalta, se ce ne fosse ancora bisogno, la grandezza assoluta di Viñales. I soliti soloni dicevano che i suoi punti deboli potevano essere il bagnato e la battaglia ravvicinata. Il secondo è cancellato alla grande. Perché nella lotta Rossi ha sbagliato, mentre Maverick è stato assolutamente perfetto, senza la minima sbavatura e con il giro veloce della gara all’ultimo passaggio, cioè quando c’era da dimostrare nervi saldi. Lui l’ha fatto con il nuovo record della pista, casualmente strappato a… Valentino.
L’ha combinata grossa Jorge Lorenzo a fine 2016. Accettando la sfida (non ancora vinta) con la Ducati, ha dato a un talento che oggi sappiamo limpido, la moto migliore dello schieramento, quella Yamaha a cui Viñales ha anche regalato la vittoria numero 500 della sua storia nei gran premi. Certe coincidenze non sono mai casuali: per la Honda Valentino ha fatto lo stesso nel 2001 e Marquez la 700a nel 2015. Proprio lo spagnolo è l’altra “vittima” di Maverick formato Yamaha. Che ha alzato talmente l’asticella da non permettere più calcoli e strategie come l’anno scorso, quando Marc ha capito che poteva gestire gli avversari Lorenzo e Rossi. Ora non più. E lo dimostrano le due cadute in 5 gare, l’ultima in Francia che lo fa precipitare nel Mondiale. Oggi non ci si può più accontentare. Non lo può fare nessuno, figuriamoci Valentino.
Filippo Falsaperla (foto Nikon Gallery)