Freschi delle esternazioni di Tom Dumoulin che accusa gli avversari di scorrettezze, perché non l’hanno aspettato quando i problemi intestinali hanno imposto la sua sosta nei campi – diversamente da lui, signorile quando Quintana giorni fa è caduto e Dumoulin invitò il gruppo a rallentare – è bene ricordare che il fair play non appartiene allo sport se non in casi rarissimi, perché la competizione in ogni disciplina prevede di confrontarsi per vincere, non per partecipare. Certamente non ad ogni costo, ma in base a regole di correttezza, lealtà e rispetto dell’avversario, che non tocca quasi mai il fair play. Potremmo chiamarla reazione spontanea, occasionale, certamente non dovuta.
L’etica dello sport, il fair play che ne deriva, vive di un principio solenne: lo sport è sempre confronto aperto, nella competizione, con un solo fine: stabilire chi è realmente il migliore, il più bravo, o i più bravi a livello di squadra, senza trucchi. Il divertimento, barando, viene meno. Lo sport con l’inganno è odioso, sempre e comunque.
La lealtà sportiva fa capolino a metà dell’Ottocento e si estende alla sfera morale, la permea sino all’avvento del professionismo che talvolta si uniforma a “superiori esigenze”. Al business, per dirla tutta. Il fair play, dato questo curioso, nasce in Gran Bretagna e muove dalla politica: dopo la rivoluzione del 1689 e i tentativi di ritorno degli Stuart si consolidò nel Regno Unito il sistema parlamentare che riconosceva formalmente il ruolo dell’opposizione come organico alla politica. Di qui il rispetto dell’avversario e l’accettazione della sconfitta che lo sport ha fatto propria, proponendo l’etica dello scontro duro ma leale. Tutto questo trovò conforto nel sistema scolastico inglese, come esigenza di disciplina. Abbondanti meriti vanno al vescovo anglicano Thomas Arnold, rettore della scuola di Rugby fra il 1828 e il 1842, che ne fu il primo sostenitore.
Rispetto delle regole da un lato e processo pedagogico-educativo sono alla base dello sport moderno. L’etica è una dimensione in cui tutti, apparentemente, si riconoscono e per la quale alcuni sono pronti a sacrificare anche il proprio interesse. Il fair play è rispetto dell’avversario, osservanza di regole non scritte anche quando queste potrebbero inficiare il risultato. Il fair play è Paolo Di Canio, mai stato un santo, che ferma la palla in area con le mani quando potrebbe proseguire l’azione e andare in gol indisturbato, visto che il portiere dell’Everton era a terra, infortunato. Chi irride alla lealtà e al fair play non ragiona di sport, si limita a chiacchiere da bar su che cosa avrà mai detto Materazzi per “meritarsi la testata di Zidane”, a plaudire Maradona per il gol di mano all’Inghilterra. È altro da quello che piace a noi, gente educata allo sport.
Il Fair play, per alcuni è un “beau geste”, soprattutto quando la sorte penalizza ingiustamente chi merita. Non è casuale che lo sport celebri ancora il gesto di Eugenio Monti nei confronti di Tony Nash, quando il “rosso volante” prestò all’inglese il famoso bullone ai Giochi di Innsbruck 1964 per consentirgli di riparare il suo bob e vincere il titolo olimpico. I maligni sostengono che Monti agì sapendo che al massimo sarebbe arrivato secondo, ma fateci caso, nel bob c’è stato un secondo gesto di grande qualità: a Lillehammer 1994 la squadra australiana di bob a 4 aiutò gli svedesi consentendogli di vincere l’oro olimpico. A danno loro, visto che gli australiani finirono secondi.
Sergio Meda