Il 1° giugno 1969, domenica, il Giro d’Italia numero 52 dopo il giorno di riposo a Parma, con Merckx saldamente in maglia rosa – vantava 1’ 41” su Gimondi, aveva già inanellato quattro successi — più che avviarsi dalla città emiliana in direzione di Savona sfuggì alle tensioni di una manifestazione di operai che reclamavano il diritto al lavoro. Il Giro, allora come ora, era una cassa di risonanza per chiunque volesse fermare la corsa o non farla partire, a tutto vantaggio dei dimostranti che ottenevano da patron Torriani la lettura – a stralcio in tv se il documento era lungo -, delle loro buone ragioni. Come sempre un comodo gioco delle parti.
Al termine della sedicesima tappa, vinta a Savona da Roberto Ballini in volata su Marino Basso e il gruppo, Merckx e gli uomini della Faema raggiunsero Albisola e l’albergo Excelsior dove trascorsero la notte. Di buon mattino, il 2 giugno, trapelò la notizia che i medici preposti all’antidoping avevano preso un pesce grosso, Merckx era positivo a uno stimolante, la fencamcamina, contenuto nel Reactivan, in libera vendita in Italia e prodotto da una quasi omonima Casa farmaceutica, la statunitense Merck.
Il fatto determinava l’immediata esclusione del belga dal Giro e la squalifica per un mese, vietandogli anche la partecipazione al prossimo Tour de France che sarebbe scattato 26 giorni dopo.
Merckx incredulo dapprima pensò a uno scherzo di cattivo gusto, poi tra le lacrime cominciò a protestare la sua innocenza: “Non è possibile – ripeteva – non può essere possibile. Perché avrei dovuto ricorrere a un eccitante per una tappa di nessuna importanza?”. Accanto a lui Vincenzo Giacotto, il manager della Faema e il belga Van Bouggenhout, il suo procuratore. Di lì a poco entrò in camera, con operatore e fonico al seguito, Sergio Zavoli, il grande giornalista inventore de Il Processo alla tappa, che raccolse la testimonianza di Merckx: “Non è vero. Ditemi che non vero. Ma credete che sia matto?” Il video è disponibile su Youtube, potete seguire oltre tre minuti di un autentico psicodramma.
Toccò a Bruno Raschi, caporedattore in Gazzetta, annunciare al campione la squalifica. Per un anno Eddy si rifiutò di salutare Raschi, un uomo mite e gentile che nel 1983, quattordici anni più tardi, scrisse di un misterioso Giuda che aveva messo il “veleno” nella borraccia di Merckx. Quello era accaduto, ma il nome del “dopatore” non emerse mai. Nessuno seppe accertare che cosa fosse realmente successo in quel frangente. Poche ore dopo Merckx ebbe parole di apprezzamento verso Felice Gimondi, il rivale che non aveva voluto indossare la maglia rosa alla partenza da Savona, maglia rosa che tenne sino a Milano.
Dopo il fattaccio di Savona Merckx raggiunse Milano dove incontrò Adriano Rodoni, presidente dell’ Uci e della Federciclo, che lo tranquillizzò avendo già ordinato un’inchiesta. La vicenda, che aveva i contorni di un giallo, vide anche l’intervento delle diplomazie dei due Paesi. Il ministro dello Sport belga, Frans Mechelen, richiese al collega Pierre Harmel, ministro degli Esteri, di interpellare il suo omologo, Pietro Nenni, affinché fosse fatta piena luce sul mistero.
In conclusione venne riconosciuta la buona fede di Merckx, autorizzato a partecipare al Tour, che poi vinse, anche se non pochi suoi colleghi in bici protestarono perché si erano usati due pesi e due misure, visto il calibro dell’imputato. Quel perdono suonò strategico, anche perché la condanna scontata senza possibilità di appello – un Giro in meno rispetto ai cinque che poi vinse meritatamente – era comunque un macigno.
Sergio Meda