E’ il simbolo della lentezza e della prudenza. E’ la bandiera del distacco e del ritardo. E’ il premio della fatica e della sofferenza. Ed è un riconoscimento alla specialità: fra campioni e fenomeni, anche qui si privilegia un fuoriclasse, con la differenza che non sta davanti, in testa, ma dietro, in fondo. Perché individua, identifica, impersona l’ultimo.
Torna la maglia nera. A grande, grandissima richiesta, torna la maglia nera. Da oggi al 15 giugno, al Giro d’Italia Under 23 dilettanti, la maglia nera sarà conquistata e indossata dall’ultimo della classifica generale: quello che ci metterà più tempo a correre (nel suo caso, corricchiare) le otto tappe in sette giorni che porteranno i 174 corridori delle 16 migliori squadre italiane, di 11 squadre straniere, della selezione delle Marche e di una rappresentativa delle regioni italiane, da Imola a Campo Imperatore. E il bello è che la maglia nera porta la firma di Pinarello, azienda leader nella produzione di bici, fondata da Nane Pinarello, che nel 1951 s’impadronì dell’ultimo posto al Giro d’Italia dei professionisti. Fiorenzo Magni e Nane, la maglia rosa e quella nera, insieme nel giro d’onore al Vigorelli.
La maglia nera per eccellenza è Luigi Malabrocca (primo, cioè ultimo, nel 1946 e 1947): fu lui, il tortonese, a rivoluzionare l’ordine di arrivo, a ribaltare la gerarchia della classifica in un’epoca duopolizzata da Gino Bartali e Fausto Coppi. “Il Luisìn”, pur di guadagnare (a suo modo, cioè perdendo) tempo, bussava alle case, s’infilava nei bar, si confondeva nelle osterie, si nascondeva nei silos. E correva con due orologi per essere certo di arrivare al traguardo prima del suo unico autentico implacabile avversario: il tempo massimo. Finché non incontrò e si scontrò con un rivale insuperabile, almeno da dietro: Sante Carollo (leader dei bassifondi nel 1949), muratore vicentino, che non arrancava ultimo per scelta, per genio e ingegno, soprattutto per convenienza economica (Malabrocca sosteneva che in un Giro d’Italia, grazie alle collette che gli sportivi dedicavano al suo sostentamento, soltanto Bartali e Coppi guadagnassero più di lui), ma per povertà di risorse fisiche, scarsità di preparazione tecnica, assenza di strategie tattiche.
La maglia nera è un film lento, un romanzo avventuroso, un’enciclopedia storica. Una per tutte: Dino Bruni, ferrarese di Portomaggiore, ultimo nel Giro d’Italia 1964. “Alla partenza del Giro mi presentai fuori allenamento, perché alla Parigi-Roubaix mi ero rotto spalla e mano ed ero stato costretto all’immobilità. Mi ci vollero sei tappe per stare in gruppo, e quando ritrovai la forma e mi riaffacciai davanti nelle volate, venni investito mentre facevo la pipì. Risultato: due costole incrinate e cinque punti a un braccio. E da quel momento lottai soltanto contro il tempo massimo. Mi interessava arrivare in fondo al Giro, anche se in fondo alla classifica. Uno degli ultimi giorni Sergio Zavoli, colpito, impietosito, commosso, mi invitò al ‘Processo alla tappa’ e mi domandò perché andassi avanti in quelle condizioni. Gli risposi che volevo soffrire così tanto da non rimpiangere più il Giro, il ciclismo, la bicicletta”.
Ma siccome Dio, almeno quello del ciclismo, esiste, gli ultimi sono beati, e premiati. Bruni ricevette un fucile da caccia Beretta automatico e una serie completa di pentole da cucina. Ad Antonio Uliana, di Vittorio Veneto, ultimo nel 1959, un mese dopo la fine della corsa fu recapitato a casa un materasso Permaflex: “Di quelli moderni, estate da una parte e inverno dall’altra, e mi arrivò come premio forse perché, secondo loro, me l’ero presa comoda”. Franco Calvi, milanese di Gaggiano, ultimo nel 1975, dovette aspettare solo un paio di settimane dopo la fine del Giro d’Italia, prima di ricevere nella cassetta della posta una cartolina: “C’era scritto di ritirare un premio, in un bar di Milano. Ci andai in bici, lungo il Naviglio, una quindicina di chilometri. Un gruppo di sportivi mi consegnò una busta. Dentro, cinquecentomila lire. Mi stupii, mi imbarazzai, poi accettai: in fondo, anche in fondo alla classifica, io ce l’avevo messa proprio tutta”. Fedele Rubagotti, bresciano di Cadrezzato, ultimo nel 1962, fu gratificato da 100 chili di caffè: “Forse per darmi una svegliata”. Anche Angiolino Piscaglia, romagnolo di Nomadelfia e adesso sammarinese, ultimo nel 1957, alla fine fu premiato: “Due settimane di villeggiatura a Forte dei Marmi. Per me e famiglia. Ma siccome i miei genitori non potevano muoversi da casa, ci andai con due cugini. Le prime vacanze della mia vita. Le uniche pagate”.
Al Giro d’Italia 2017, ma dei professionisti, l’ideale maglia nera è toccata a Giuseppe Fonzi, abruzzese: “Non toccata, ma conquistata, giorno dopo giorno, tappa dopo tappa. Solo una volta ho commesso un errore: sono andato in fuga, ma dalla parte sbagliata, quella davanti al gruppo. E quando il gruppo è venuto a riprendermi, ho tirato un sospiro di sollievo”. Avrebbe voluto esserci, al Giro d’Italia Under 23, da ambasciatore, da testimone, da missionario, da leader: “Invece volerò al Giro di Corea. Per togliermi qualche soddisfazione”. Quali, ce le racconterà.
L’idea non fu sua, ma di Lupo, Lupo Mascheroni, che alla Gbc faceva da meccanico e massaggiatore, direttore sportivo e stratega: “Meglio ultimo, così rimani nella storia”. Lui non voleva, non capiva, poi si rassegnò, accettò e si impegnò: “Le ultime tre o quattro tappe, a sei o sette chilometri dall’arrivo, mi fermavo, mi sedevo, aspettavo, oppure mi mescolavo fra la gente, oppure entravo in un bar. E a chi mi chiedeva perché, rispondevo che ero stanco, distrutto, finito, che non ce la facevo più”. Poi risaliva in bici e così vinse, a suo modo, dopo 3917 chilometri e 112 ore in sella, per un soffio: 54 secondi su Gilles Locatelli, francese.
Marco Pastonesi