professionista, aver partecipato a film e programmi tv e
una dipendenza dall’alcool che si è fatta sempre più pesante negli anni (solo per ricordare alcune cose
principali), Rodman è uno di quegli strani personaggi
considerati cattivi, folli, perversi che incarnano però dei valori assoluti e con una personalità a tratti dolce, educata e sensibile. Che ti lasciano, insomma, completamente spiazzato.
Lo si è capito presto nel basket, quando la sua voglia spasmodica di difendere e andare a rimbalzo invece di tirare, lo hanno reso la componente indispensabile nei trionfi dei Pistons e dei Bulls di Michael Jordan, un compagno ideale, sempre pronto a dare il massimo per la squadra. Il problema è che, dopo essere cresciuto in condizioni difficili e con davanti a se una prospettiva di vita assai grama, salvato dalla pallacanestro ormai quasi da adulto, una volta diventato campione Nba, invece di sentirsi arrivato, ha provato dentro di sé qualcosa che lo stava soffocando. E dopo una notte passata in un parcheggio deserto con un fucile nella sua auto soppesando la possibilità di spararsi e farla finita, ha avuto una illuminazione. Solo liberandosi, senza sentirsi più costretto in una parte che non lo rappresentava, sarebbe riuscito a sopravvivere.
La mattina, mentre già in molti temevano il peggio, è ricomparso. Ha ricominciato a vivere tingendosi i capelli nei modi più bizzarri. E non s’è posto più un limite. Per molti, anche nel basket, era semplicemente diventato un fenomeno da baraccone, Phil Jackson e Michael Jordan decisero di dargli una possibilità che poi è valsa tre titoli Nba. Ovvio che per una persona così, il peggio arrivi quando la carriera finisce. La sua necessità di alimentare il mito e guadagnare soldi con la pubblicità lo ha portato a fare di tutto, compreso giocare a basket in Finlandia o presentarsi in Vaticano al Conclave per promuovere un sito di scommesse che avrebbe ridato i soldi indietro se il nuovo Papa fosse stato nero. In questo contesto si inseriscono i viaggi in Corea del Nord, il primo nel 2013 per una esibizione cestistica durante la quale conobbe Kim, un avido fan dei canestri, definendolo poi un “amico per la vita” e suggerendo poi al presidente Obama di “fargli una chiamata”. Ha poi organizzato una partita di ex giocatori Nba a Pyongyang il 7 gennaio del 2014, compleanno di Kim.
Durante quella tournée sollevò un polverone sostenendo che Kenneth Bae, un cittadino americano condannato a 15 anni di lavori forzati in Corea, fosse stato imprigionato
giustamente. Fu costretto a scusarsi dicendo che aveva
bevuto troppo. Nel 2016, però, Bae ormai libero, ringraziò pubblicamente Rodman per l’intervento a suo favore. “Basta che funzioni” direbbe Woody Allen, riferito alle tecniche del più strano e imprevedibile diplomatico della storia che dice di essere amico del presidente Trump, che ha sostenuto in campagna elettorale (ha anche partecipato a The Apprentice Vip). Ora ci riprova, ma anche stavolta il suo viaggio è sponsorizzato da un gruppo che promuove una nuova moneta virtuale. Ho conosciuto Rodman, dopo averlo incontrato alle finali Nba, una volta che venne a Milano, in un tour promozionale. Non era particolarmente interessato e attivo, anche se fu gentile e disponibile con
i lettori della Gazzetta con i quali diede vita ad una
chat. Ad un certo punto gli chiesi se, al di là degli
stereotipi e delle storie sul suo conto, la sua vita fosse davvero così spericolata, se gli capitasse mai, ad esempio, di passare una serata in casa come tutti i comuni mortali. “Certo – mi rispose – non faccio niente di strano: capita anche a me, quando torno a casa alle 4 o 5 del mattino, di mettermi in poltrona a guardare un film. Proprio come tutti”. Appunto.
Luca Chiabotti