Lo sport è tutta questione di tempo. Ognuno ha il proprio e, finché può tenere il suo ritmo, sviluppare il suo pensiero, attuare le sue abitudini, sorride felice. Ma appena l’altro, l’avversario, lo costringe a cambiare musica, accelerando o rallentando o, peggio ancora, alternando l’uno all’altro, senza concedergli una cadenza certa, si stressa, manifestando rabbia e frustrazione nei modi più disparati, ma sempre evidenti. Nel tennis, per avere la conferma di questo assunto, basta leggere il “body language” di tanti avversari (e parenti ed amici) che si trovano a fronteggiare Rafa Nadal, sulla terra rossa, e Roger Federer, sull’erba. Perché, sfruttando la naturale attitudine alla superficie-madre e quindi lo spartito musicale che riescono ad imporre alla partita, quei due diavoli costringono quelli che si ritrovano di là del net a un esercizio improbo: semplicemente, troppo veloce, irrimediabilmente, fuori posto. Il mancino di Maiorca spinge con talmente tanta violenza e frequenza di giri di palla e di sbracciate i suoi colpi da fondo da costringere l’avversario a subire, non pensare, non attivare alcuna tattica offensiva, ma soltanto correre e correre supinamente, implacabilmente, da destra a sinistra, principalmente dietro la linea di fondo. Lo svizzero delle meraviglie spezzetta talmente il fraseggio con la varietà di tocco e geometrie e velocità, da impedire gli abituali, pesanti, martellamenti da fondocampo del tennis moderno che portano alla inevitabile falla in qualche zona del perimetro e quindi all’ultimo affondo. E invece schioda, inesorabilmente l’avversario dalla sua posizione tradizionale, a fondocampo, utilizzando spesso micidiali smorzate e costringendolo a rete, dove non gioca mai, dove deve cambiare movimento di piedi ed equilibrismi di corpo, impugnatura e colpo d’occhio. Tutto, troppo.
Ecco perché – fatte le logiche differenze di qualità di tornei – il decimo trionfo di Rafa al Roland Garros e il nono di Federer ad Halle si somigliano tanto, anche più del settimo di RogerExpress a Wimbledon. Perché, quando si esprime in Germania, nel torneo che rivaleggia oggi col Queen’s come tradizionale prologo di Wimbledon, il primatista di 18 Slam gioca più fluido ed offensivo che ai Championships, anche per la durata dei match che varia dal meglio dei 3 al meglio dei 5 set, e in Gran Bretagna innesta spesso il pilota automatico dei suoi ottimi colpi da fondocampo. Rafa tiene gli avversari sul fondo a Parigi, Roger li costringe a rete ad Halle. Così, dopo aver visionato assieme la semifinale di Richard Gasquet contro il bambino d’oro Sascha Zverev, gli ha suggerito quell’ottimo stratega di Ivan Ljubicic. Perché, accettando il batti e ribatti da fondo, su una superficie peraltro infida come l’erba, avrebbe rischiato di perdere il braccio di ferro di pura forza contro un avversario tanto più giovane e spavaldo. E, buttandosi semplicemente a rete, sarebbe stato presto fiaccato dall’artiglieria pesante del tedesco, cioè dai micidiali passanti del futuro numero 1 del mondo, come del resto gli era successo proprio ad Halle, nelle semifinali di dodici mesi fa.
Morale: le facce di papà e fratel Zverev in tribuna si sono rabbuiate, domenica, sin dopo i primi scambi della finale. Mentre Sascha sbuffava e digrignava i denti, incapace di scatenare la potenza del suo motore e costretto invece a scatti continui in avanti per fronteggiare traiettorie basse e melliflue, pillole al veleno di cui non ha ancora l’antidoto. Chissà quante volte, in quegli scambi, sarebbe voluto essere suo fratello Mischa che invece con le volée ha da sempre grande dimestichezza. Anche se, anche lui è stato irretito dall’arte del Magnifico, sempre ad Halle, costretto a restarsene sul fondo, a lavorare duro, svuotando il serbatoio di energie che alla fine non trovava più nei ricami sotto rete. Ecco, questa capacità tattica di cambiare completamente le carte in tavola interpretando le caratteristiche della superficie e dell’avversario sono armi che Federer il giovane non possedeva, ma quello vecchio sì. E questo può essere il grimaldello per scardinare per la ottava volta la cassaforte Wimbledon. E’ vero non vince dal 2012, ma ha giocato altre due finali nel 2014 e nel 2015.
Vincenzo Martucci