una particina di second’ordine nel suo sogno nel baseball, qualcuno azzarda che quel cecchino implacabile di Curry nel basket insegua una carriera vera e propria nel golf, trasformando “una grandissima passione” nel lavoro di domani. E, intanto, ad agosto, sfodererà il suo handicap 2.2 cimentandosi coi professionisti del Pga Usa nel Web.com Tour’s Ellie Mae Classic, ad Hayward, in California. “Spero di non mettermi in imbarazzo, ma posso fare qualunque cosa”. Scatenando mille ragionamenti da parte degli analisti dello sport Usa. Che contestano per la prima volta il concetto di invio degli sponsor, i munifici sponsor che tengono in vita lo show business.
Quello di Curry è soltanto un “progetto di vanità”, una sfida nella sfida di un primattore che si nutre di sfide e di nuovi limiti, oppure è qualcos’altro? Magari è il passaggio a eclatanti sfide fra atleti famosi che si cimentano in altri sport, per aumentare l’audience e i contratti pubblicitari della tv. Oppure è solo un’ulteriore sistema per fare altri soldi da aggiungere ai già tantissimi soldi che oggi premiamo una star dei maggiori sport professionistici Usa. Anche se Curry ha esposto una tesi molto diversa: “Sono onorato di avere l’opportunità di giocare coi pro, non solo sarò in grado di misurarmi con alcuni dei più famosi e forti di loro, ma potrò anche contribuire a promuovere lo spirito benefico del torneo e aiutare la Fondazione della Comunità dei Warriors”.
La domanda vera del golf è un’altra: possibile che il nostro sport sia così tanto carente di star da attingere ad altre discipline? Perché questa, ultimamente, è la vera problematica del green, orfano di Tiger Woods, e sempre più legato a omoni potenti e privi di carisma che stracciano i tracciati col drive, abbattendo anche lo spirito dello sport e degli appassionati. Molitorie quali possono vantarsi di essere usciti da un bunker come un campione, o di aver apportato come loro, o addirittura di aver imbucato meglio da cinque metri, ma nessuno possiede quei muscoli e quel controllo di palla col primo tiro al tee, e si sente sempre più lontano dalla vetrina.
Del resto, poi la realtà di questi tentativi è sempre difficile. Recentemente, Tony Romo, ex stella della NFL player, ha mancato le qualificazioni all’US Open, ed ex pro di vari sport come Yevgeny Kafelnikov, Jerry Rice, Ivan Lendl and Andriy Shevchenko hanno ricevuto inviti per i tornei veri sul green scoprendo che il 68 fra amici non è lo stesso nel feroce golf pro. Lo stesso vale per gli altri sport, basti vedere come l’ex star del Milan e della nazionale azzurra, Paolo Maldini, ha perso – col sorriso, la leggerezza e l’equilibrio della persona equilibrata che è -, in doppio, già al primo turno contro il muro del tennis del torneo Challenger all’Harbour Club di Milano. Calciatore è calciatore, tennista è tennista. La passione è una cosa, il professionismo, oggi, è un’altra. Anche per atleti fatti e finiti, che hanno dimestichezza con la palla e sono allenati al rapporto occhio-palla-corpo, caratteristiche importantissime, comuni al basket, al golf, al basket, al cricket, al ping pong. Ma poi cambiando le dimensioni della palla stessa, e le regole e il campo di gara, cambia tutto.
Vincenzo Martucci