Ho un po’ di nostalgia per il basket mercato. Metà della mia vita professionale è stata scandita dalla chiusura dei trasferimenti della serie A, generalmente nella prima settimana di luglio, con un forcing finale senza fiato che portava molte trattative a risolversi pochi minuti prima della scadenza di mezzanotte, e magari qualche minuto dopo taroccando gli orologi, quando le società più piccole e spericolate costruivano intere squadre. Noi, nei quotidiani, diventavamo matti per poter offrire ai nostri lettori, già la mattina seguente, il tabellone completo dei roster della nuova stagione, incompleto solo per quanto riguardava i due stranieri. Litigi furibondi in tipografia e coi capiredattore che intimavano di chiudere le pagine dei giornali, ma la soddisfazione di prendere anche l’ultimo cambio di maglia valeva la pressione di tenere aperti quotidiani che allora vendevano mezzo milione di copie. E senza internet e comunicati stampa, nei primi anni anche senza cellulari, eravamo piuttosto bravi a fornire un servizio completo sui trasferimenti con momenti di pura euforia quando riuscivamo a beccarli tutti. Solo un paio d’anni prima dell’apertura totale delle frontiere e della morte dei cartellini, cioè del marcato concepito così, eravamo riusciti a convincere la Lega a chiudere il mercato a mezzogiorno, cosa molto più logica ma priva del fascino alla Lemmon e Matthau di Prima Pagina. E il momento nel quale i lettori, col cappuccino, scoprivano le loro squadre e cominciavano a fantasticare sulla nuova stagione, era senz’altro uno dei momenti clou della loro stagione.
Oggi che è cambiato tutto, che le squadre cambiano continuamente giocatori, un po’ di quel fascino è rimasto solo nella Nba, quando dal primo luglio scatta la free agency e gli affari più importanti si concentrano nei primi giorni del mese. Il mio essere contrario al mercato sempre aperto non è nostalgico ma pratico: il primo problema del basket italiano è la qualità del gioco espresso in campo, al quale si aggiunge la pochezza delle infrastrutture: se i roster cambiano continuamente, vendere il prodotto pallacanestro diventa sempre più difficile. Per questo credo che bisognerebbe pensare seriamente non ad un “mercato come una volta” ormai anacronistico (anche se, per equità, sarebbe corretto poter cambiare le squadre solo dopo l’andata e tra una fase e l’altra della stagione) ma a regole copiate un po’ dalla Nba per stabilizzare le squadre e migliorarne la qualità. Butto lì a caso: se una società trattiene uno straniero per almeno due stagioni, dalla terza in poi, sempre nella stessa squadra, non entra più nelle quote ed è uno “straniero in più”. Una legge che permetterebbe di pagarlo meglio e difendere quelli bravi dagli attacchi, ormai predatori, dei campionati esteri. Oppure, studiare degli sgravi fiscali, o dei premi, sui contratti pluriennali anche degli italiani, una sorta di Larry Bird exception della Nba. Ma siccome gli agenti guadagnano sulle transazioni, questa opera stabilizzatrice non verrà mai fatta…
Il risultato, però, è che a fronte di una Nba che ci propone un mercato entusiasmante (nei primi 5 giorni si sono mossi All Star come Chris Paul, Paul Millsapp, Gordon Hayward, Paul George, giocatori importanti come Gallinari, Howard, Brook Lopez, Butler, Randolph, Rubio), il nostro non decolla anche se siamo a luglio. Tanti arrivi di stranieri di medio livello, spesso già visti, o proveniente da campionati minori e da lanciare, perdite dolorose di giocatori chiave (come Aaron Craft di Trento). Torna il play uruguayano Fitipaldo e va ad Avellino, ed è un bel colpo anche se il suo salto in Eurolega al Galatasaray, dopo due lampi, è finito in deciso calo di minuti e prestazioni, Achille Polonara è andato a Sassari e, nel momento in cui scrivo, Pietro Aradori sembra alla Virtus Bologna. Per capire quali saranno i valori reali delle squadre del nostro campionato, bisognerà al solito aspettare Natale e la fine del girone di andata. Ammesso che non cambino metà formazioni prima…
Ovvio che tutte le attenzioni siano rivolte a Milano, l’unica società che fa l’Eurolega e ha i mezzi economici per competere sul mercato a livello continentale che ha praticamente ingaggiato uno dei più forti attaccanti sul mercato europeo, Andrew Goudelock, ex Maccabi Tel Aviv.
Ormai, come voi, seguo anch’io il mercato dell’Olimpia sui giornali e sui siti, mi manca il contatto diretto, e questo può essere uno dei motivi di perplessità altrimenti spiegabili. Io credo che in tutti gli ultimi anni, Milano abbia costruito buone squadre, alcune ottime, e anche la scorsa estate ero convinto che l’EA7 potesse competere comodamente per i playoff d’Eurolega con piccoli dubbi dovuto più ai gusti personali che a reali questioni tecniche (non avrei preso Radulijca perché sospetto sempre di chi gioca bene solo in un posto, la nazionale serba, deludendo sempre in altri contesti). Diciamo che l’unico neo sembrava l’aver riempito la squadra di esterni e essere corti nei pivot.
Quest’anno mi ha colpito leggere sulla Gazzetta dello Sport che, dopo i primi tre acquisti, Patric Young, Dairis Bertans e Amath M’Baye, confermati gli italiani e Tarczewski, cioè arrivati a dieci giocatori a roster, il commento suggerito dalla società fosse “adesso mancano i 4/5 del quintetto base”. La perplessità non è tanto sulla formazione da 14 giocatori, ma sul fatto che prima si prendono i giocatori importanti, da quintetto, poi gli si costruisce addosso la panchina in modo che sia funzionale ai big. Le grandi squadre, anche nella Nba, si fanno così. Partire al contrario porta a doppioni, incompatibilità, incomprensioni. Adesso è arrivato anche Vlado Micov, giocatore che mi faceva impazzire già ai tempi di Cantù. Bene, no? Si, grande acquisto, ma anche stavolta, Milano mostra una passione per giocatori in fase già calante di carriera (Vlado ha 32 anni e non è mai stato un atletone, anche se potrebbe scrivere trattati sul basket) o che hanno dei punti interrogativi. Patric Young, fortissimo, due anni fa si spaccò perdendo la stagione. Nell’ultima annata all’Olympiacos mi è sembrato tutto meno che perfettamente recuperato, e non parlo di guarigione medica data per scontata (2.7 punti di media, in 9’ in campo in Eurolega, praticamente a sedere nelle Final Four). Insomma un rischio neppure a poco prezzo. Sarà comunque una grande squadra per l’Italia, poi si vedrà…
In tutto questo, la Gazzetta ci ha regalato una intervista al presidente Gianni Petrucci che ha fatto quasi tenerezza se non celasse, secondo me, un importante problema etico sportivo. Parlando di Nazionale e della inevitabile conferma che i giocatori della Nba e dell’Eurolega non potranno vestire l’azzurro nelle qualificazioni mondiali, il n.1 della Fip ha detto: “Non posso pensare che Armani, sponsor azzurro, neghi i giocatori alla Nazionale”. Premesso che se negli ultimi due anni, invece di minacciare, squalificare, seguire pedissequamente la Fiba, i presidenti prestigiosi come Petrucci e delle grandi federazioni avessero mediato per trovare un accordo più che possibile tra Eurolega e Fiba (bastava spostare le finestre a settembre e giugno) questo scempio si sarebbe evitato, il problema vero è che il presidente-proprietario-
Luca Chiabotti