Chi di mancino ferisce, di mancino perisce. Nel derby mancino, nel match più lungo di Wimbledon 2017, Rafa Nadal manca la rimonta per ritrovare le sensazioni migliori, quelle del campione che non accetta di perdere mai, men che meno a Wimbledon e davanti ad un avversario inferiore di classifica, di qualità, di risultati, di tutto, come Gilles Muller. Dopo le passeggiate contro Millman, Young e Khachanov, il mancino più famoso dello sport di Spagna aveva bisogno di scaricare tutta l’adrenalina, di alzare il livello, di riassaporare il sangue del nemico, di recuperare da due set a zero sotto nel derby contro il mancino più famoso dello sport del Lussemburgo. Che era arrivato agli ottavi superando la cild card Fucsovics, il qualificato Rosol e il naturalizzato inglese Bedene.
Una rimonta per promuovere il più grande di sempre sulla terra rossa anche ai quarti dei Championships. Una rimonta per dimostrare a se stesso che è competitivo anche sull’erba, che tutto dipende dalla concentrazione sui punti importanti, perché altrimenti non avrebbe perso i primi due set contro il mancino lussemburghese tutto servizio-volée, e comunque quando vuole può ancora scalare le montagne. A prescindere dai numeri di Muller che, negli Slam, non è andato mai oltre i quarti, che in classifica ha toccato il numero 26 solo adesso, a 34 anni, la miglior annata di sempre, sfatando il tabù titoli Atp, imponendosi a Sydney e Den Bosch. Che contro i primi 5 del mondo veniva da 22 sconfitte di fila.
Una rimonta che risuonasse veemente negli spogliatoi, e risuonasse nelle orecchie e nei cervelli dei rivali diretti, soprattutto agli altri Fab Four. Ricordandogli che il grande, inimitabile Rafa, quest’anno ha perso di un soffio e solo contro il redivivo Federer la finale degli Australian Open, e poi ha firmato il decimo urrà a Barcellona, a Montecarlo e soprattutto al Roland Garros, ma anche che sui campi di Wimbledon ha giocato cinque finali vincendone due. Ed è sempre competitivo, sempre affamato.
Una rimonta eclatante, rumorosa, che raccontasse del campione di Maiorca che recupera due set iniziali di svantaggio, e poi anche due match point, sul 4-5 del quinto set, con un ace e un servizio vincente, e poi con un altro ace. Perché i campioni sono campioni e Muller è stato, sì, il numero 1 del mondo juniores 2001, ma ha perso sia la finale di Wimbledon che quella degli Us Open. E, da professionista, si è fatto la fama di “gran perdidor”, appena co-protagonista sull’Atp Tour e soltanto comparsa negli Slam. Fino a quest’anno, fino a quest’esplosione tardiva, compreso il successo sull’erba di Den Bosch, contro il 38enne Karlovic, nella finale più lunga sul Tour, 42 anni dopo Rosewall-Nastase (42 anni a 30) di Hong Kong 1977.
Una rimonta sofferta, del più grande atleta di Spagna di sempre, per frantumare il sogno più bello di sempre del povero Muller. Che, servendo per primo, nel quinto set, rimane in testa fino al 10-9, quando manca il terzo e il quarto match point. Sotto la spinta del magico servizio-volée d’altri tempi, arriva al 14-13, dopo un’ora e mezza, ritrova due match point. Sul primo, al quinto, match point, dopo 4 ore 48 minuti, Rafa spara fuori da fondo, esausto. Premiando i 30 ace, le 83 discese a rete e l’entusiasmante 14/16 sulle palle-break di Muller. Che così torna a battere Nadal dodici anni dopo la prima ed unica volta che c’era riuscito, a Wimbledon 2005. Forse, a 34 anni, la sua rimonta sul tennis e sulla vita è più clamorosa di quella sfiorata dal campione affermato e vincente. Che, comunque, vince il titolo di campione esemplare: attende pazientemente che Muller rimetta insieme le cose nella borsa, saluta il pubblico con le braccia alzate e poi si ferma anche a firmare autografi ai tifosi, uscendo dal campo. Ha ragione a polemizzare con l’All England Club che lo programma sul Campo numero 1: “Sul Centre Court ci vanno sempre altri”. Cioè Federer e Murray. E’ legittimo che un simile campione ambisca alla massima ribalta, e anche che protesti, pur col garbo e la classe di un immortale dello sport. Grazie, tennis.
Vincenzo Martucci