Ci sono allenatori e ci sono allenatori. Ne abbiamo visti e scoperti tanti, alcuni ci hanno sorpreso, altri ci hanno affascinato. Andrea Capobianco ci incuriosiva da tempo, da quella drammatica partita con la Lettonia agli Europei di basket donne persa con un contestatissimo fallo intenzionale fischiato alla star, Zandalasini, insieme alla possibilità di qualificarsi per i Mondiali. Poi lo abbiamo visto ancora protagonista con gli under 19 argento ai Mondiali, con due giocatori nel miglior quintetto della manifestazione, Oxilia e Bucarelli. E ora con gli Under 18 che al torneo di Campobasso si preparano all’Europeo a Bratislava e Piestany del 29 luglio-6 agosto.
Capobianco, “Capo” come la chiamano tutti, come fa a conciliare tanti impegni diversi?
“Il Mondiale under 19 è stato un evento straordinario, non previsto, che si è aggiunto alla programmazione”.
Ma come fa a passare dalle donne agli uomini senza problemi?
“Le differenze non vengono dal gioco, ma dalle relazioni con gli atleti che non dipendono dal sesso, ma dalle individualità che sono sempre diverse, a prescindere. Qualsiasi individuo ha la sua personalità e io devo essere bravo a relazionarmi ed interagire con lui. Quel che cambia davvero, nel gioco, è l’intensità, ma la partenza è uguale”.
Eppoi c’è il campione.
“Il campione dev’essere bravo a capire pregi e difetti dei compagni per farli giocare bene e rendere al massimo”.
Questa filosofia l’ha imparata con la lunga gavetta.
“Ho allenato tutto, è vero, dai pulcini alla serie A alla nazionale come vice di Simone Pianigiani, alla femminile, questo passaggio mi ha arricchito molto”.
Fa l’allenatore nazionale a tempo pieno, ma torna sempre nella sua Venafro, di 11mila abitanti. “Venafro, è in Molise, abito lì, ci sto bene, sta sulla strada per Roccaraso, verso Napoli, dove sono nato. Da lì parto continuamente per girare l’Italia, insieme ad Antonio Bocchino, facendo l’allenatore della nazionale a tempo pieno, alleno le giocatrici, parlo tanto con gli allenatori, coi quali ci confrontiamo molto sulla base di un modello tecnico integrato. Perché sono anche responsabile della formazione degli allenatori. E sono convinto che i fondamentali sono necessari, ma sono, fra virgolette, “il vestito” da adattare alle caratteristiche mentali e fisiche di ciascun giocatore”.
Il basket italiano femminile è pieno di preconcetti.
“Uno è: “Non ci sono le lunghe”. E’ vero. Ma io rispondo: “Allora lavoriamo per fare delle buone guardie dei buoni play, che capiscano il gioco veramente, perché in serie A sono per lo più straniere”.
Qual è il problema principale del basket donne italiano?
“Dobbiamo aumentare base. Si possono trovare le giocatrici, e quindi allargare il bacino d’utenza. Non possiamo prevedere il futuro e quindi capire che cosa sarà di una ragazza di 14-5 anni, come crescerà, come diventerà, ma possiamo creare quella piramide di cui abbiamo bisogno per arrivare all’eccellenza. Quello che dobbiamo fare è costruire il futuro, seguendo limiti e pregi di ciascuno, lavorando sui singoli, secondo le caratteristiche di ognuno all’interno dell squadra”.
Facciamo qualche esempio.
“Così ho fatto con giocatori come Poeta, Palonara, Amoroso. Hai un problema al tiro? Bene, tira altre 100/200 volte al giorno. Passi poco la palla o non sai giocare senza palla? Cambi ruolo, giochi dove impari a passare o a smarcarti”.
Che cosa manca adesso alla nazionale maggiore donne per fare un altro salto di qualità?
“Dobbiamo dare valore ai miglioramenti, manca la capacità di vedere quanto stiamo facendo di buono. Il gruppo di giocatrici col quale ho lavorato è stato straordinario per voglia di allenarsi e di migliorarsi. Quindi loro ci sono. Ora dobbiamo rimuovere gli alibi. Tipo: “Quel giocatore o quella squadra è più forte”. Ebbene, è vero, e allora? Un allenatore deve dire: “Io alleno questa squadra, e per me questi sono i migliori giocatori e questa è la migliore quadra”. Così, con gli under 19 non mi sono disperato se il sorteggio ci ha proposto subito gli Stati Uniti. Anzi, meglio avere i più forti nel girone, così non li affronti dopo”.
Però, se parliamo di alibi, come definire il fallo intenzionale con la Lettonia?
“No, non è il caso nostro. Perché, l’azione dopo, la squadra è andata al tiro, come aveva fatto contro la Turchia, ha cercato ancora di fare qualcosa, ha avuto ancora una reazione. Eppure contro la Lettonia le ragazze mentre preparavo quell’ultimo tiro avevano le lacrime agli occhi… Io allenatore devo lavorare sulle cose che si possono fare, sulle altre non posso intervenire!”.
Lei è un buonista.
“Penso che se l’Italia, come paese, imparasse a valorizzare il positivo e le bellezze che ha si migliorerebbe la vita. E, comunque, se uno contesta tutto, protesta sempre, critica solo, loda gli altri, come succede di sentire da certi allenatori, mi chiedo, come chiedo a chi continiua a mangiare comunque nello stesso ristorante: “Perché ci vai ancora?”. E quindi: “Perché restare nella femminile?”. Io sono convinto che invece ci siamo tantissimi elementi belli ed importanti, e che lo sport al femminile stia crescendo molto, in Italia.. E io mi diverto ad allenare, e mi emoziono per come le giocatrici fanno le cose”.
Se possedesse la bacchetta magica, che cosa farebbe per cambiare la mentalità italica?
“Vorrei che la gente credesse di più nel nostro lavoro, capisse la funzione educatrice che abbiamo, e valorizzasse al massimo le gerarchie, le figure dei maestri e dei dirigenti. Perché oggi lo sport ha un valore sociale straordinario”.
Lo sport va sempre più verso le statistiche.
“Io credo che le statistiche siano utili se vengono analizzate e pesate dalle persone giuste, così da renderle vive. Per esempio, se ho delle statistiche che mi dicono che certi giocatori hanno il 20-22% al tiro, magari vedo che però negli ultimi quattro minuti salgono al 50%, quando sentono l’odore del sangue, mi affido a loro. Come mi è successo a Jesi e a Teramo e ancora con l’unger 19, quando il tiro decisivo l’ho affidato a un giocatore così. Perché alla fine sono le persone quelle che contano, e il fattore emotivo fa la differenza”.
Vincenzo Martucci