Mi sono ricordato del giorno in cui un distinto nobiluomo romano, il conte Marini Dettina, staccò un assegno di 500 milioni di vecchie lire per assicurare alla Roma il talento di Angelo Benedicto Sormani, un oriundo brasiliano che si era messo particolarmente in luce giocando nel Mantova. Sovrapporre a quell’immagine in bianco e nero dei favolosi anni 60 il bonifico di 220 milioni di euro per esercitare la clausola che libera Neymar verso Parigi è quasi scontato. Tra i due brasiliani passa mezzo secolo di calcio con un’asticella che si è via via alzata dai due miliardi “scandalosi” per Savoldi al Napoli ai 105 per Zidane al Real (che ne aveva già spesi 100 per Bale) per non dire di Pogba al Chelsea, altra mega-plusvalenza realizzata dalla Juve.
Ogni volta che cade un record ci si chiede, come nel nuoto, quali siano i limiti “umani” il che, nel caso specifico, potrebbe riassumersi in una domanda secca: quanto costa e quanto vale il calcio? E’ evidente che questa domanda non troverà risposte certe fin quando esisteranno personaggi come l’emiro del Qatar, per il quale l’investimento ha un plusvalore politico di un Paese che organizzerà i Mondiali del 2022.
Sono cifre folli, evidentemente, soprattutto se si pensa alla fame nel mondo e all’indirizzo umanitario che potrebbe avere questa montagna di denaro. Ma alle preoccupazioni di carattere sportivo della serie “Così vinceranno sempre i ricchi” mi viene facile replicare con una considerazione abbastanza banale: hanno sempre vinto i più ricchi. E’una legge di vita alla quale nemmeno il barone De Coubertin ha potuto derogare. I più ricchi sono anche quelli che contano su più tifosi che vogliono dire TV, sponsor, merchandising. Alla maggioranza, che ricca non è, non resta che partecipare nella speranza che tra le briciole del tavolo resti per caso una pepita. Uno scudetto a Verona, uno alla Samp, uno al Leicester: volete mettere i gusto?
Enrico Maida